Non è semplice quantificarne il “peso” economico, ma alcuni studi rilevano tra gli autonomi una quota importante di lavoratori in questo segmento
In questi giorni la gig economy – “l'economia dei lavoretti” o “on demand”, come viene comunemente definita – è stata al centro dell'attenzione, tra scioperi e proteste di alcune categorie di lavoratori che vorrebbero una regolamentazione che includa le nuove piattaforme che offrono servizi o beni analoghi. Ma non solo: la gig economy è da tempo sotto osservazione per la tipologia di attività lavorative, talvolta sottopagate e prive di particolari tutele.
Non è cosa semplice quantificare l'impatto economico della gig economy, anche perché non sempre risulta semplice collocarla in una giusta dimensione data la saltuarietà che la caratterizza. In più spesso si confonde con la sharing economy, l'economia della condivisione.
In realtà il modello su cui si basa la gig economy prevede che liberi professionisti o autonomi possano accumulare reddito negli archi di tempo in cui manca il lavoro, o arrotondare se il lavoro non è sufficiente a soddisfare i propri bisogni. Spesso si rivela una soluzione rapida ed efficace per gli studenti che intendono guadagnare qualche soldo per non gravare troppo sul bilancio delle famiglie di origine.
Al di là delle condizioni socioeconomiche cui sono sottoposti i lavoratori, studi in materia in grado di dare la misura del fenomeno, al momento provengono soprattutto dagli Stati Uniti. Secondo una ricerca del Pew Research Center, quasi uno statunitense su quattro nel 2015 si è affidato alla gig economy, chi per offrire servizi tramite piattaforme online, chi vendendo prodotti, chi affittando beni di proprietà.
Secondo un altro studio, stavolta del McKinsey Global Institute, che analizza le tendenze negli Stati Uniti e in Europa, le persone impegnate in qualche forma di lavoro indipendente superano i 162 milioni, una quota compresa tra il 20 e il 30% della popolazione in età lavorativa. Ad oggi, però, solo il 15% degli autonomi intervistati da Mckinsey ha utilizzato una piattaforma digitale per trovare lavoro, seppure l'economia on-demand stia crescendo rapidamente.
Lo studio mette in risalto anche le diverse categorie di lavoratori “gig”, quelli che lo conducono per scelta e quelli invece costretti dalle circostanze e dalle difficoltà occupazionali. Ad ogni modo una possibilità di aumentare gli occupati e, di conseguenza, veder crescere il Pil.
La gig economy, infatti, comincia ad interessare parecchio anche il vecchio continente. Del resto il numero di autonomi in Europa è di per sé già abbastanza consistente. Un'indagine della CNA, che ha elaborato dati Eurostat relativi al terzo trimestre del 2016, conta 4,7 milioni di occupati indipendenti in Italia (la cifra più alta nell'UE), 4,3 milioni nel Regno Unito, 3,9 milioni in Germania, 2,9 milioni in Spagna e in Francia.
Estendendo il discorso, a proposito di piattaforme online, solo l'app economy (molte imprese, anche in Italia, hanno creato delle app allo scopo di mantenersi in contatto con la propria base clienti) è riuscita a generare fino adesso – secondo diversi studi al riguardo – circa tre milioni di posti di lavoro.