Scenari internazionali

Le difficoltà dell’Africa sub-sahariana

Il rallentamento della Cina, l’apprezzamento del dollaro, il calo della domanda e delle quotazioni delle materie prime: i fattori che hanno fatto rallentare il continente africano

20 Mag 2016 - 14:00

Il rallentamento della Cina e il calo dei prezzi delle materie prime, non hanno avuto ripercussioni solamente tra le economie avanzate e quelle emergenti (i Brics ad esempio). Ad oggi – al di là dei luoghi comuni e delle criticità intrinseche dell’area – anche l’Africa sub-sahariana presenta notevoli difficoltà.

Negli ultimi mesi, spiega infatti il Sace, il continente africano ha messo a segno la crescita più bassa degli ultimi anni, addirittura più bassa di quella registrata nel 2009, anno in cui mezzo mondo è stato interessato dalla crisi economica. Stiamo dunque parlando di un’area in costante rallentamento.

Basti pensare che, mentre il tasso di crescita tra il 2004 ed il 2008 si era attestato al +6,8% (+4,9% quello mondiale), nel 2009-2013 si è registrato un rallentamento al +5% (+3,3% a livello globale). Negli ultimi due anni il dato ha frenato nuovamente fino a portarsi al +3,4% dello scorso anno, la crescita più bassa dal 2000. Le stime indicano per l’anno in corso un ulteriore rallentamento al +3%.

In particolare, si può osservare nel resoconto del Sace, a registrare le maggiori criticità sono quei Paesi che basano la propria economia sul – come definito dalla società del Gruppo Cassa depositi e prestiti – “Fattore C”, rappresentato da almeno uno di questi fattori: Commodity, Cina e Capitali esteri.

Questi tre fattori sono strettamente legati. La Cina è infatti il primo partner commerciale dell’area sub-sahariana. Per alcuni Paesi – come Sierra Leone, Mauritania, Zambia, Angola, Congo, Repubblica Democratica del Congo e Gambia – la quota dell’export verso la Cina supera il 40% dell’export totale (in Sierra Leone il 62%). Va da sé che un rallentamento delle importazioni cinesi dall’Area ha portato forti ripercussioni sulle singole economie.

Anche il fattore Commodity ha giocato un ruolo di tutto rilievo. Tenendo conto che per alcuni Paesi subsahariani il 62% dell’export totale è composto da Commodity energetiche e minerarie (contro il 16% dei beni manufatti e il 10% dei prodotti agricoli), le basse quotazioni del barile e la scarsa domanda di petrolio hanno portato a meno entrate dirette e ad un calo del terzo ”Fattore C”: i Capitali esteri.

Costituite da obbligazioni, prestiti bancari e azioni, i flussi di capitali esteri verso l’Africa Sub-sahariana sono aumentati tra il 2013 ed il 2014, passando d 39 miliardi di dollari a 46 miliardi. Nel 2015, il prezzo basso delle commodity e il rafforzamento del dollaro, hanno comportato un calo a 36 miliardi di dollari.

Il Sace non ha dubbi che questa situazione possa riversarsi anche sui partner commerciali dell’area, come l’Italia. Solo tra il 2014 ed il 2015 l’export italiano verso i Paesi considerati è sceso del 7,9%, fermandosi a 5,7 miliardi di euro e facendo registrare la prima frenata dal periodo 2009-2010. Che i “Fattori C” evidenziati dal Sace siano protagonisti anche della flessione dell’export italiano verso l’area è certificato dai risultati (negativi) che hanno interessato i rapporti tra il nostro Paese e quelle economie più dipendenti dal petrolio: le vendite verso Nigeria, Angola e Repubblica del Congo hanno registrato flessioni comprese tra il 25% ed il 40%. Al contrario, è cresciuto notevolmente l’export verso Costa d’Avorio, Paese “slegato” dall’influenza delle tre “C”: +59%.

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