Negli anni della crisi, in cui la domanda interna risultava stagnante, le aziende italiane hanno cercato di intercettare a domanda estera
La crisi economica ha ridimensionato notevolmente il tessuto imprenditoriale italiano. In termini assoluti si parla di un calo di oltre 194mila aziende e di oltre 800mila addetti. Una situazione che ha costretto molte attività a correre ai ripari, mettendo in campo strategie diverse, soprattutto volte all’internazionalizzazione. Ma andiamo con ordine.
Nel suo ultimo rapporto sulla competitività dei settori produttivi, l’Istat analizza appunto i cambiamenti che hanno interessato le imprese italiane tra il 2011 ed il 2014. Il primo elemento che salta all’occhio è la diversità nell’andamento dei vari settori: se per alcuni le difficoltà sono state maggiori, in altri casi si riscontra una miglior tenuta. È il caso dei servizi, ad esempio. In una tabella contenuta nel Rapporto – relativa alle Caratteristiche delle imprese per macrosettore - si può notare come a fronte di un calo dello 0,3% del numero delle aziende attive nella manifattura e di un -1% per quelle delle costruzioni, si sia registrato un aumento dell’1,3% per quelle dei servizi alla persona e solo un lieve calo dello 0,1% per quelle dei servizi di mercato.
Di conseguenza al calo dello 0,5% della quota di occupati nel settore manifatturiero e al -1,4% di quella degli addetti nelle costruzioni, è corrisposta una crescita degli occupati nel settore dei servizi di mercato dell’1% e dell’1,1% per i servizi alla persona.
Insomma, quello uscito fuori dalla crisi è stato un tessuto imprenditoriale profondamente cambiato. Per tenere traccia di questi cambiamenti, in particolare di quelli che hanno interessato le performance vere e proprie delle imprese italiane, l’Istat ha utilizzato un particolare indicatore basato su tre fattori: la redditività sostenibile (con cui si intende la capacità dell’impresa di ottenere una redditività operativa (ROI) superiore al costo medio del capitale di terzi) la solidità sostenibile (ovvero la capacità dell’impresa di resistere all’andamento sfavorevole del mercato grazie ad un adeguato livello di indebitamento e ad una buona correlazione tra le fonti di finanziamento e gli impieghi) e la liquidità sostenibile (la capacità dell’impresa di mantenere un livello di liquidità in grado di coprire adeguatamente le fonti di finanziamento a breve termine). Attraverso questi tre parametri, l’Istat, ha sviluppato un indicatore sintetico di sostenibilità economico-finanziaria per stabilire quali imprese sono in salute (ovvero quelle che presentano piena sostenibilità in tutti e tre gli ambiti), quali sono fragili (quelle con redditività sostenibile ma con solidità e/o liquidità non sostenibili) e quali a rischio (ero quelle con redditività non sostenibile).
Come sottolineato dall’Istituto, uno degli aspetti emersi è che “nel 2014, tra i 10 comparti finanziariamente più sostenibili, aumenta (da 4 a 6) il numero dei settori manifatturieri”, ovvero quelli che “hanno beneficiato di una maggiore possibilità di ricorrere ai mercati esteri”, in un momento in cui la forbice tra domanda estera (in crescita) e nazionale (in calo o comunque stagnante) si presentava piuttosto marcata: non a caso, nella manifattura, per 16 settori su 21 si rileva una crescita della sostenibilità delle condizioni economico-finanziarie (nel 2014 il 30% delle attività manifatturiere si potevano ritenere in salute contro il 22-28% degli altri macrosettori).
La strategia messa in campo dalle imprese per migliorare la propria competitività è stata quindi quella di riuscire ad intercettare la domanda dei mercati esteri. Nel 2014 il numero di imprese esportatrici era pari a 177 mila unità (tra i valori più elevati in Europa) e, nonostante l’incidenza sul numero totale delle imprese italiane sia piuttosto esigua (appena il 6%), possono vantare un peso economico non indifferente: a queste imprese, spiega l’Istat, è riconducibile circa la metà del valore aggiunto complessivo del sistema. Solo le imprese esportatrici manifatturiere hanno contribuito all’80% del valore aggiunto dell’intero settore e al l’85% dell’export complessivo italiano.