Il presidente di Fininvest, in un'intervista a La Stampa, lancia l'allarme: "Da cittadina temo per il futuro della democrazia, da imprenditore dico che voglio poter combattere ad armi pari con le Big Five"
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Digitale e internet stanno cambiando le nostre vite, ma "non è così scontato che sarà tutta un'avventura meravigliosa". A lanciare l'allarme in un'intervista a La Stampa è il presidente di Fininvest, Marina Berlusconi, che "da cittadina" si pone "qualche domanda sul futuro della democrazia", mentre "da imprenditore dell'editoria, dico che con le Big Five (Apple, Microsoft, Google, Amazon, Facebook, ndr) dobbiamo poter competere ad armi pari".
Riportiamo di seguito l'intervista che Marina Berlusconi ha rilasciato a La Stampa.
Da che cosa nasce l'allarme?
«Con l'aiuto della Casa Bianca di Obama, il mondo delle Big Five era riuscito ad accreditarsi come sinonimo di libertà e modernità. Chi osava suggerire qualche limite veniva tacciato di oscurantismo. Non discuto capacità imprenditoriali, lungimiranza e coraggio di coloro che questi giganti hanno fondato e sviluppato, personaggi che segneranno la storia. Ma se oggi i Cinque Grandi del web sono le maggiori società mondiali per valore di Borsa è anche perché hanno potuto operare in un contesto del tutto privo di regole».
Non crede però che l'atteggiamento stia cambiando?
«Mi pare si continuino a sottovalutare le implicazioni economiche, politiche e sociali, di cui fatico perfino a immaginare la portata. E' un mondo che va governato, prima che tanta potenza ci sfugga di mano».
Governare vuol dire introdurre la discussa web tax? La figlia di Silvio Berlusconi chiede una nuova tassa?
«Non parlo solo di questo. Ma le pare accettabile che l'anno scorso Amazon abbia versato al fisco italiano 2,5 milioni di euro e Facebook neppure 300 mila? E poi ci sono i comportamenti “disinvolti” delle multinazionali del web, sanzionati da multe miliardarie, ci sono le decine di cause - in Italia Mediaset ha fatto da apripista - sull'utilizzo di contenuti e copyright. Senza dimenticare che di questi campioni di modernità e trasparenza si sa ben poco: in Italia Amazon non fornisce dati di vendita, idem Google e compagnia».
Ma non pensa che anche Mondadori, nel suo ruolo di leader, avrebbe potuto essere più intraprendente prima, invece di invocare barriere oggi?
«Innanzitutto, considero il digitale importante, ma sempre strettamente connesso all'attività editoriale. Non vedo una Mondadori che fa e-commerce di viaggi. Per il resto, mi pareva ci accusassero di essere fin troppo intraprendenti. Dopo l'acquisto dei libri Rizzoli, l'Antitrust ci ha imposto di cedere due case editrici, Marsilio e Bompiani».
Sta cercando una rivalsa? Mettere limiti perché li hanno messi a voi?
«Ma no, è che qui siamo su un altro pianeta: Google controlla nel mondo quasi il 90% dei motori di ricerca, Facebook il 66% del traffico social. Ma nessuno invoca barriere. Oltre che inutile sarebbe ridicolo. Chiediamo solo che le regole valgano per tutti. E magari anche uno sforzo di immaginazione, non si possono affrontare con norme vecchie di decenni fenomeni senza precedenti».
Uno stop al libero mercato chiesto dal primo editore italiano? Non è un po' troppo?
«Pensi agli Stati Uniti, che sul libero mercato danno lezioni a tutti. Fra gli artefici della potenza economica americana decisivi sono stati i cosiddetti “robber barons”, personaggi leggendari e spregiudicati come Vanderbilt, J.P. Morgan, Rockefeller. Ma negli Usa, poco dopo, è nato anche l'Antitrust e ha avuto il coraggio di attaccare concentrazioni in apparenza invincibili, dal petrolio alle ferrovie».
Le Big Five sono i nuovi robber barons digitali da fermare?
«Sono infinitamente più potenti. Seguono un modello, a partire da Amazon, non così innovativo: distruggere ogni mediazione, ogni passaggio fra loro e il consumatore finale, mettere fuori mercato tutti gli operatori della catena produttiva-distributiva praticando prezzi insostenibili, grazie alle economie di scala che la globalizzazione consente, alla tecnologia e ai comportamenti cui accennavo. Una volta padroni del mercato, saranno liberi di imporre a tutti le loro condizioni».
Anche Mondadori lavora con Amazon. Non è un'ipocrisia?
«E' un operatore da cui non si può più prescindere, e poi oggi la legge italiana sugli sconti per i libri limita fortunatamente la sua strategia. Che però a livello globale resta chiara: “cambiare il mondo”, o meglio conquistarlo. Ma siamo così sicuri che una volta eliminati editori, librai, agenti letterari, Amazon non deciderebbe che cosa farci leggere, quando, a che prezzo? Che fine farebbero tutti i sacrosanti discorsi su autonomia editoriale, pluralismo delle voci, libertà degli autori?».
Come risponde Mondadori?
«Cercando di far sempre meglio il mestiere di editore: produrre buoni contenuti, trovare buoni libri, proporli ai lettori. Potrai essere formidabile nella logistica e nella politica commerciale, ma fare l'editore è un'altra cosa».
La rivoluzione digitale ha portato tanti vantaggi ai consumatori: servizi efficienti, sempre disponibili, gratuiti o scontati. A questo non pensa?
«Certo. Li utilizzo anch'io, come tutti. Eppure dobbiamo sapere che un prezzo lo paghiamo. Altissimo. Mettiamo la nostra identità, i nostri gusti, le nostre amicizie a disposizione di chissà chi e per chissà quali scopi. Miliardi di persone che accettano di essere schedate. Per questo non mi paiono molto credibili gli impegni a combattere le fake news: ai social non interessa informare correttamente, ma attrarre, e spesso il falso attrae più del vero. Gli utili non li fanno con l'autorevolezza, ma rivendendo i nostri profili. C'è poi un altro prezzo occulto. Perché il modello delle multinazionali del web non può creare benessere per l'intera comunità, anzi. Il consumatore che apprezza il tutto gratis è magari lo stesso che, nella guerra dei giganti per eliminare ogni concorrenza, è rimasto senza un lavoro o diventato un precario. E parla una che non può certo essere sospettata di demonizzare il profitto».
Quali sono invece le perplessità come madre?
«Ho due figli adolescenti. La generazione del “Google in your pocket” probabilmente è più reattiva, più capace di trovare risposte rapide a ogni domanda. Potendo disporre di qualunque informazione in qualunque momento, i ragazzi rischiano però di considerare superfluo approfondire e apprendere, anche nel senso di ricordare. Rischiano di essere meno capaci di stupirsi, meno liberi di annoiarsi e di trasformare la noia in fantasia. E il mestiere di noi genitori è più complicato: i figli non hanno più solo un loro mondo interiore, spesso ermetico, ma galleggiano anche in un mondo online molte volte opaco».
Allora che cosa deve fare un genitore?
«Non avrebbe senso tentare di tenere il mondo digitale fuori dalla loro vita: fa parte della realtà cui appartengono e del loro tempo. Credo si debba cercare di dar loro quella capacità critica che consenta di utilizzare al meglio la tecnologia senza diventarne strumento, spiegando bene che la vita on line non si può sostituire a quella reale».
Secondo lei è insomma una battaglia culturale. E' anche un appello alla politica?
«Per l'Europa e la sua politica sempre più incerta e contestata potrebbe essere un'occasione per dimostrare che non è condannata a subire i processi, ma riesce a guidarli. Questo è un tema che non possono affrontare i singoli Stati e credo che stavolta non ci sia da contare sugli Usa: le Big Five sono tutte americane».
Internet e social stanno cambiando la stessa politica. È un bene o un male?
«Ogni strumento che migliori il rapporto elettori-eletti è positivo, ma la democrazia digitale è un'utopia pericolosa. I 5 Stelle sono la dimostrazione che non funziona, quando non è addirittura un inganno. C'è peraltro una contraddizione insanabile. Se l'obiettivo della democrazia digitale è eliminare ogni mediazione, la politica è o dovrebbe essere l'esatto opposto: in nome dell'interesse generale, la mediazione tra interessi particolari».
In questa politica 2.0, il ritorno in campo di suo padre da protagonista dopo 20 anni non è anacronistico?
«Non è questione di 2.0. o 5.0, un tweet può aiutare a far politica, ma abbiamo visto che succede se la politica diventa un tweet. La politica, la buona politica, sarà sempre fatta di progetti, idee, esperienza, equilibrio. Questa è la grande forza di mio padre. E mi stupisco ancora di più di chi si stupisce: lui il campo non l'ha mai lasciato. E' da vent'anni che provano a buttarlo fuori e a far fallire il suo progetto per l'Italia. E in questo l'antiberlusconismo ha messo in mostra i mali peggiori del Paese: l'invidia per chi ha successo, il pregiudizio per chi non la pensa come te, il giustizialismo. Il modo in cui mio padre ha saputo reagire mi pare abbia fatto capire a molti la vera posta in gioco: non il destino di Silvio Berlusconi, ma di quanti non ne possono più di una certa Italia vecchia e immobile, quella sì, rancorosa e intossicata».
Chiudiamo tornando al digitale. Non crede che la sua posizione sia troppo critica?
«Guardi, mi torna spesso in mente uno dei libri che più amo, “Vita e Destino”, la formidabile denuncia di Vasilij Grossman sugli orrori di comunismo e nazismo. Nessun paragone senza senso, ma sa perché mi torna in mente? Perché i colossi del web, cavalcando la globalizzazione, tendono a creare un mondo omologato, stessi gusti, stesse abitudini, stessi consumi. Grossman dice invece che proprio nell'unicità e nella diversità di ciascuno sta l'essenza stessa dell'uomo. E dove si cerca di cancellare varietà e differenze, “la vita si spegne”. Una frase che mi ha molto colpito. In fondo, è proprio vero che nei libri è già scritto tutto».