Tante le dichiarazioni che hanno lasciato il segno durante i 14 anni ai vertici di Fca da parte del manager, tra la situazione degli stabilimenti alle difficoltà iniziali alla guida del gruppo
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"In tutta sincerità non riesco a vedere un mio futuro dopo la Fiat. Non è la prima azienda che ho risanato, ma è senza dubbio quella che credo mi stia permettendo di esercitare tutte le mie capacità. Temo di non avere dentro di me l'energia per un altro ciclo di questa intensità". Questa una delle frasi più celebri di Sergio Marchionne, più attuale che mai; parole che evidenziano l'attaccamento del manager al marchio torinese e il "peso" della responsabilità affidatagli dal Lingotto: quella di rilanciare un gruppo storico in crisi.
Su Fiat - Tante altre le frasi note di Marchionne in riferimento al suo incarico all'interno di Fiat prima ed Fca poi. "Ho cercato di organizzare il caos - le sue parole a proposito dei primissimi anni nel gruppo - ho visitato la baracca, i settori, le fabbriche. Ho scelto un gruppo di leader e ho cercato con loro di ribaltare gli obiettivi per il 2007. Allora non pensavo di poter arrivare al livello dei migliori concorrenti, mi sarei accontentato della metà classifica. Nessuno ci credeva, pensavano che avessi fumato qualcosa di strano. Oggi posso dire che non mi ha mai sfiorato la tentazione di rinunciare, piuttosto il pensiero che forse non avrei dovuto accettare. Ma era la Fiat, era un'istituzione del paese in cui sono cresciuto".
E ancora: "Ho letto in questi anni molti libri sul legame tra la Fiat e l'Italia. La tesi generale è che se la Fiat va bene, l'economia italiana tira, aumentano le esportazioni, aumenta il reddito, crescono i posti di lavoro. Insomma, ciò che è bene per la Fiat è bene anche per l'Italia. Credo sia vero, perlomeno in parte, e comunque ci impegneremo perché ciò accada. Ma credo sia ancora più vero il contrario: ciò che è bene per l'Italia è bene per la Fiat".
"Mi ricordo i primi 60 giorni dopo che ero arrivato qui, nel 2004: giravo tutti gli stabilimenti e poi, quando tornavo a Torino, il sabato e la domenica andavo a Mirafiori, senza nessuno, per vedere quel che volevo io, le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Cose obbrobriose. Ho cambiato tutto: come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai e farli vivere in uno stabilimento così degradato".
Filosofia - Marchionne ha più volte fatto riferimento anche ai propri metodi di lavori e alla mentalità da leader. "La leadership non è anarchia - una delle sue affermazioni - in una grande azienda chi comanda è solo. La 'collective guilt', la responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo".
"Il diritto a guidare l'azienda è un privilegio e come tale è concesso soltanto a coloro che hanno dimostrato o dimostrano il potenziale a essere leader e che producono risultati concreti di prestazioni di business".
"Quando uno si alza, il contegno è molto importante. Bisogna alzarsi dal tavolo facendo valere il punto, ma lasciando capire che alla fine ti risiederai. Ti devi alzare calmo, anche se sei incavolato".
"Quando ho iniziato l'università, in Canada, ho scelto filosofia. L'ho fatto semplicemente perché sentivo che, in quel momento, era una cosa importante per me. Poi ho continuato studiando tutt'altro e ho fatto prima il commercialista, poi l'avvocato. E ho seguito tante altre strade, passando per la finanza, prima di arrivare a occuparmi di imballaggi, poi di alluminio, di chimica, di biotecnologia, di servizi e oggi di automobili. Non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o mi renda un amministratore delegato migliore. Ma mi ha aperto gli occhi, ha aperto la mia mente ad altro".
Sul rapporto con l'Italia - "Questa è la cosa che mi fa incazzare di più. 'Manager canadese', è l'ultima di tutta una serie che arriva a dipingermi come anti italiano, pur di minare la mia identità di manager. Io ho il passaporto italiano".
"Io sono così. Il tizio con il maglione. Almeno non mi confondo la mattina nell'armadio. I miei maglioni hanno un piccolo tricolore sulla manica. E lo porto con orgoglio, io".
"L'Abruzzo è la mia terra. Sono nato qui, a Chieti. Qui ho fatto i miei primi otto anni di scuola. E forse, se non fossi emigrato in Canada con la mia famiglia all'età di quattordici anni, avrei frequentato anche questa università. Sono dovuti passare quarant'anni e altre due nazioni, la Francia e la Svizzera, prima che la vita mi riportasse in Italia".
"Storicamente, in Italia, per accontentare tutti, abbiamo sempre accettato compromessi e mediazioni, e abbiamo esaltato forme di attività corporative che hanno minimizzato il cambiamento. È questo atteggiamento che ha frenato l'Italia nel diventare un Paese competitivo. È questo atteggiamento che rende gli investimenti stranieri in Italia scarsi e rari. È questo atteggiamento che, perlomeno in parte, continua a tenere l'Italia in posizione difensiva e imbarazzata verso il resto dell'Europa".
Sui lavoratori - "Ho grande rispetto per gli operai e ho sempre pensato che le tute blu quasi sempre scontino, senza avere responsabilità, le conseguenze degli errori compiuti dai colletti bianchi".
"Non credo assolutamente alla regola che più sono giovani più sono bravi. Anzi. Sono per il riconoscimento delle capacità delle persone, che abbiano trenta o sessant'anni".
"Non è licenziando che si diventa più efficienti. Non è il costo del lavoro di per sé che fa la differenza tra un'azienda competitiva e una relegata ai margini del mercato".