Claudio Feltrin, ceo dell'azienda del Triveneto che produce tavoli e sedute di design, racconta l'avvincente storia dell'impresa di famiglia
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Il coraggio di guardare all'estero fin dal primo giorno, nel 1989. Quando un muro ancora divideva Berlino e il mondo; quando i Paesi del Vecchio continente erano divisi da frontiere; quando la moneta unica era più un'utopia che un sogno. Il coraggio, dopo dieci anni, di mettere da parte quel cuoio che gli aveva portato fortuna e reinventare l'azienda. Il coraggio di aprire l'impresa familiare a manager esterni. Claudio Feltrin, ceo di Arper, e la sua famiglia non si sono mai seduti sugli allori. Alle strade più semplici hanno sempre preferito quelle apparentemente più complesse. Vincendo tutte le sfide.
Claudio Feltrin, come possiamo definire Arper?
"Dando una definizione da Camera di commercio, possiamo definire Arper come un'azienda di arredamento. Produciamo sedute e tavoli di design".
Quando è iniziata questa avventura?
"Siamo nati due volte. Nel 1989 come produttori di sedie in cuoio, una nicchia all'interno di un mercato di nicchia. Avevamo due alternative: scegliere il mercato interno, già affollato con marchi affermati che rappresentavano per noi un'alta barriera all'entrata. Oppure scegliere di guardare oltre i confini, cercando di superare le barriere linguistiche e monetarie. Facemmo la seconda scelta. Nel 2000 la 'seconda nascita', abbiamo profondamente trasformato l'azienda mettendo da parte il cuio. Il punto fermo è rappresentato dalla vocazione estera, che esiste dal primo giorno".
Come mai, nel 2000, avete deciso di cambiare pelle?
"L'azienda andava bene ed era arrivata a fatturare circa 10 miliardi di lire, 5 milioni di euro. Ma emerse un problema: noi eravamo una realtà artigiana, gestita in modo familiare, ma con cifre che cominciavano a esser impegnative. Non eravamo né carne né pesce. Avevamo di fronte due possibilità: o rimpicciolirci per restare in famiglia oppure optare per una linea di crescita che ci avrebbe portato a dotarci di una struttura organizzativa più manageriale. Inoltre il cuoio stava perdendo appeal e lo stesso mercato della casa, a cui noi ci rivolgevamo, era sempre meno frizzante. L'intuizione è stata quella di scommettere sul mercato contract, verso il quale non c'era molta attenzione da parte delle grandi aziende italiane. Abbiamo così deciso di voltare pagina".
E avete aperto a competenze esterne alla famiglia, scelta sempre difficile per le piccole e medie imprese italiane...
"Abbiamo guardato al mondo del design, incontrando un grande architetto, Alberto Lievore, che ci ha fatto un po' da mentore culturale e ci ha aiutato a organizzare e strutturare la nostra idea. Abbiamo poi aperto a un manager esterno, Gianni Bronca. La scelta di allargare la famiglia a esterni si è rivelata azzeccatissima. Anche perché non siamo mai stati gelosi del nostro mestiere e, a differenza di alcuni Paròn, come si dice da noi, non abbiamo ficcato il naso e abbiamo dato libertà al nuovo management. L'arte della delega è un po' difficile da applicare ma noi ci siamo riusciti. Pur mantenendo il nostro core business precedente, perché fonte delle risorse necessarie proprio per effettuare questi cambiamenti, siamo riusciti a ristrutturare e rilanciare Arper".
Quanto conta e quanto ha contato l'estero per voi?
"L'estero ha rappresentato una scuola di vita, ci ha insegnato una certa pragmaticità e nei rapporti e puntualità nella produzione che in Italia non era così fondamentale. I primi rapporti oltre i confini nazionali li abbiamo avuto con Germania, Austria, Svizzera, Francia, Spagna. Europa, certo. Ma con valute diverse e listini da aggiornare. Poi abbiamo scommesso sugli Stati Uniti e nel 2000, di quei 10 miliardi di lire che fatturavamo il 35% arrivava dall'America. Anche in Asia, in particolare a Hong Kong abbiamo sempre lavorato bene. Eravamo commercialmente innovativi nonostante fossimo piccoli rispetto a tanti altri. E l'estero ha sempre rappresentato il 90% dei nostri incassi".
L'euro, sempre al centro di polemiche, vi ha aiutato oppure penalizzato?
"L'euro ha anzitutto eliminato il rischio cambio. Poi ha fatto emergere le reali capacità di fare impresa perché ha eliminato quel jolly che era rappresentato dalla svalutazione. Certo, il cambio lira-euro forse avrebbe potuto essere più conveniente, ma non serve guardare indietro".
Come viene accolta un'impresa italiana nel mondo?
"Il settore del mobile ha sempre vissuto, per merito, momenti belli. Siamo ancora leader indiscussi nel mondo. Perché siamo molto bravi, produciamo con una raffinatezza che agli altri è preclusa. Viviamo di una buona nomea, di un buon allure. Questo per quanto riguarda il prodotto. L'italiano, in sé, è invece sempre visto con un po' di diffidenza e si fa fatica a guadagnarsi la fiducia".
Qual è la nuova scommessa di Arper?
"Stiamo spingendo molto verso il mercato americano. Tanto che, per garantire quella puntualità e velocità che ci contraddistingue, abbiamo deciso di aprire uno stabilimento in North Carolina. Crediamo che il Made in Italy sia un modo di produrre, indipendentemente dal luogo. Noi vendiamo la nostra professionalità, l'estetica, la raffinatezza. E' tutto questo che fa il Made in Italy".