L'America del tycoon (bis) dovrà fare i conti con una popolazione stanca di competere su troppi fronti, coi conflitti in corso in Ucraina e Medioriente e con la grande rivalità con la Cina. Ecco come si muoverà la nuova amministrazione
di Maurizio Perriello© Afp
Una singola notte non cambia il mondo e una singola persona non cambia i destini di una nazione. Eppure le elezioni americane sono un qualcosa di unico, una svolta, un passaggio fondamentale che la superpotenza globale mette in scena sul palcoscenico del pianeta. Un pianeta infiammato da guerre e tensioni come mai dall'epoca della Seconda Guerra Mondiale. Il ritorno (da confermare) di Donald Trump alla Casa Bianca è figlio anche della stanchezza imperiale che affanna l'America, ormai esposta su troppi fronti d'oltreoceano. Una delle sfide principali del nuovo presidente riguarderà proprio la politica estera e la postura degli Stati Uniti nei confronti di Ucraina, Medioriente e Taiwan. E, dunque, nei confronti di Russia, Iran e Cina, tre potenze antagoniste che hanno deciso di cooperare momentaneamente per insidiare il primato americano.
Mentre in patria sono stati economia e immigrazione le preoccupazioni principali degli elettori, per il resto del mondo la proiezione esterna degli Stati Uniti il dossier numero uno. Innanzitutto per noi europei, che dell'America siamo province d'oltreoceano, ma anche per i grandi antagonisti di Washington. Non che decida il presidente, intendiamoci. A guidare le traiettorie strategiche di una nazione, specie un impero e specie l'egemone globale, sono gli apparati. E a decidere qualunque mossa importante, in primis approvazione e sblocco dei fondi pubblici, è il Congresso. Congresso che il presidente non può sciogliere, a dimostrazione dell'effettiva limitatezza dei suoi poteri. Al netto di tutto, il presidente incarna però la narrazione della nazione. E gli Stati Uniti puntano quasi tutto sulla narrazione, sul modo in cui si raccontano e legano a sé gli altri Paesi. Vediamo dunque quale sarà la narrazione veicolata dalla seconda presidenza Trump per quanto riguarda i tre fronti caldi.
Cominciamo col precisare che i principi strategici di una nazione esistono a prescindere dai suoi leader. Gli Usa non fanno eccezione. Il più importante di tutti è l'evitare a tutti i costi che emerga un Paese egemone in Eurasia e, in generale, in ogni continente del pianeta. Gli stravolgimenti degli ultimi due anni hanno messo a dura prova la tenuta americana sul pianeta, concretizzata nella globalizzazione. Che altro non è che il dominio statunitense dei mari. Non nella loro interezza, ovviamente, ma attraverso il controllo dei colli di bottiglia e degli stretti marittimi. Non è un caso che le potenze nemiche cerchino di contrastare questo sistema proprio nei choke point, come nello Stretto di Taiwan e di Bab el-Mandeb. Accumulando capitali e influenza in anni di partecipazione al mercato globale, la Cina ha ad esempio costruito un sistema di controglobalizzazione che però fatica a decollare. Ciononostante Pechino ha formato un sistema di alleanze di comodo con Russia e Iran che ha catalizzato il sentimento anti-occidentale comune alla maggioranza dell'umanità. A partire dall'Africa, teatro cruciale per lo sfruttamento di risorse e la preparazione dei conflitti del futuro.
Cosa vuole fare Donald Trump con l'Ucraina? Già con Biden l'obiettivo strategico degli Stati Uniti era quello di congelare la guerra, per evitare di consegnare una Russia sconfitta e umiliata nella fauci della Cina. Col tycoon alla Casa Bianca si spingerà con maggiore insistenza per un negoziato che scontenti gli ucraini e faccia concessioni territoriali e geopolitiche alla Russia. Puntando anche sui rapporti stretti con Vladimir Putin, al quale Trump invidia la verticale del potere. Dal punto di vista pratico, il repubblicano bloccherà l'ingresso di Kiev nella Nato (indigesto a molti alleati e satelliti americani) privilegiando una sorta di garanzia o trattato sulla sicurezza dell'Ucraina. In parole ancora più dirette: il Paese invaso dovrà accettare una pace umiliante. Zelensky dovrà dunque lasciare la guida del governo e il suo sostituto non dovrà essere sgradito a Mosca. Nel caso in cui i colloqui naufragassero, Trump intende lasciare gradualmente gli ucraini al loro destino. Al pari dei Paesi europei, chiamati al riarmo proprio per alleggerire l'impegno materiale degli Stati Uniti nel Vecchio Continente.
L'intenzione di Trump sarebbe quella di consentire a Israele di conseguire il suo grande piano: controllare l'intero territorio che va dal Mediterraneo alla Valle del Giordano. Il che vuol dire il dominio sulla Striscia di Gaza e sulla Cisgiordania, abitate da palestinesi, e di parte del Libano meridionale. Benjamin Netanyahu è una vecchia conoscenza del tycoon e rimarrebbe al suo posto da vincitore, se aiutato a dovere a sconfiggere la Mezzaluna sciita messa su dall'Iran per contenere Israele. A quel punto Teheran vedrebbe cadere il suo grande obiettivo: distruggere gli Accordi di Abramo che vedono la normalizzazione dei rapporti fra Stato ebraico e monarchie arabe, in particolare quella saudita. Non è esclusa la certificazione di una qualche istituzione statale o sub-statale palestinese, a puro scopo ornamentale.
Se c'è qualcosa che la terza guerra mondiale a pezzi ci ha mostrato, è che lo scontro finale per l'egemonia globale sarà con la Cina. L'Indo-Pacifico rappresenta il quadrante più strategico per gli Usa. Taiwan in questo senso diventa l'ombelico del mondo, inzeppato di armi e ben protetto dagli alleati regionali di Washington. Dalla prima catena di isole, che coinvolge Giappone e Filippine, alla seconda, che fa perno sulla piccola ma potentissima isola militare di Guam. Una rete securitaria che impedisce al Dragone di proiettare la propria potenza in mare, nonostante una netta superiorità numerica navale cinese. Trump rafforzerà con ogni probabilità questo sistema, anche con lo schieramento di missili e l'incremento della presenza militare statunitense. Ma non solo. Nei piani del tycoon c'è da mesi, se non anni, l'inasprimento della guerra commerciale contro Pechino attraverso l'innalzamento dei dazi. Le tariffe erano state aumentate già dall'amministrazione Biden a settembre: del 100% sui veicoli elettrici, del 50% su celle fotovoltaiche, semiconduttori e microprocessori, e del 25% sull'acciaio.