PASSATO E PRESENTE

Verona, Perbellini e la terza stella tra Callas e Nuvolari: "Il talento non basta e in cucina la semplicità è per pochi"

Verona, lo chef di 'Casa Perbellini 12 Apostoli' si racconta: "Nel ’92 arrivai a Copenhagen senza stipendio e col ristorante che non funzionava, quel concorso fu la svolta"

30 Dic 2024 - 19:50
 © Antonella Pelosi

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Entri e l'occhio cade subito sulle tre bacheche appese alla parete alla sinistra dell’ingresso. Ti avvicini e si apre un mondo. Ci sono le penne lasciate dagli ospiti illustri che hanno voluto dire “Io sono stato qui”: da Maria Callas a Dino Buzzati, da Giovannino Guareschi a Ezra Pound, da Federico Fellini a Gianni Brera.

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Sono soltanto alcuni dei personaggi tra artisti, scrittori, musicisti e politici che hanno frequentato il ristorante 12 apostoli, un’insegna con 275 anni di storia portata al successo a partire dagli anni ’50 da Giorgio Gioco, maestro e custode della tradizione culinaria veronese. I ‘12 Apostoli’ erano per i veronesi dodici mercanti di Piazza delle Erbe che intorno a metà del ‘700 si riunivano in questo luogo per pranzare e concludere i loro affari.

Oggi il ristorante è ‘Casa Perbellini 12 apostoli’. Chef Giancarlo Perbellini, che di Giorgio Gioco è stato allievo a vent’anni, nel 2023 lo ha rilevato e riportato ai grandi fasti di un tempo, rispettandone vissuto e tradizione. Qui nuovi sapori convivono con vecchi saperi. E qui chef Perbellini ha conquistato la terza stella Michelin, l’ennesimo sigillo di una lunga e importante carriera che lo ha portato ai vertici della cucina di eccellenza in Italia e nel mondo.

© Antonella Pelosi

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“Quando siamo arrivati ai ‘12 apostoli’ ho detto ai miei ragazzi che dipendeva da noi se volevamo raggiungere i traguardi che ci siamo prefissati – racconta chef Perbellini - Questo posto ha dato un’energia incredibile alla squadra per il passato e per tutto quello che è stato vissuto qui dentro. E ora con la terza Stella Michelin c’è tanto da fare. Innanzitutto bisogna mantenerla”.

Come ci è tornato nel posto dove ha cominciato?
“Ci siamo arrivati per caso, perché, come si dice, i pianeti si sono allineati. Avevo dato disdetta nel vecchio ristorante senza averne un altro dove andare. Dopo sei mesi di ricerca avevo deciso di ritirarmi e di curare gli altri miei locali. Poi un giorno ho ricevuto la telefonata di Antonio Gioco (figlio di Giorgio Gioco, ndr): avevo già provato due volte a prendere questo posto, questa volta me l’ha chiesto lui. Sapeva che lo adoravo”.

La sua bacheca è ricca di premi nazionali e internazionali. Quando la guarda il primo pensiero è: come sono stato bravo o cosa mi manca?
“Spesso e volentieri guardo la foto del 1992 a Copenaghen, quando partecipai al concorso “Chef Européen du poisson”. Era un brutto periodo, da nove mesi non prendevo lo stipendio, il mio ristorante non funzionava, avevo due gemelli e vivevo con lo stipendio di mia moglie. Dovevo preparare una zuppa di pesce con l’obbligo della birra, con la trota salmonata all’interno e come secondo piatto un trancio di salmone con una crosta d’astice e zabaione al pomodoro, basilico e farro al tartufo. Non l’ho più ripetuto perché mi ha fatto morire. Davanti a me vidi passare cuochi di livello altissimo ma alla fine portai a casa il premio speciale, che consisteva in una zuppiera vuota, e soprattutto un assegno da 100 mila corone danesi, 30 milioni di lire. Il mio stipendio di un anno e mezzo. Uscii dal 'Bella Center' di Copenaghen senza zuppiera, mi suggerirono di andarla a recuperare: era un pezzo unico, opera di un artista danese, della Royal Copenaghen. Con le 100 mila corone danesi ho comprato il primo ristorante del mio gruppo che non porta il mio nome, il San Basilio alla Pergola. Dopo di questo ne sono arrivati altri, alcuni dei quali non mi appartengono più. Sono quelli che mi hanno permesso di arrivare ai ‘12 apostoli’ nel 2023”.

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Da poco i ’12 apostoli’ sono diventati ‘13’ con il debutto del podcast in cui racconta aneddoti di alcuni dei tanti personaggi passati per il ristorante. Da dove nasce questa idea?
“Perché non farli rivivere? Perché non farli conoscere alla gente? Gianni Brera alla fine di un 90° minuto, dopo aver commentato una partita, disse: ‘E adesso rispondo al mio amico Giorgio Gioco’. Lui sosteneva che la pearà (salsa veronese dei bolliti, ndr) non fosse veronese ma di Pavia. ‘Ti aspetto al varco quando verrai a Verona…’, gli mandò a dire Giorgio”.

Una puntata del podcast ha come protagonista Maria Callas
“La Callas odiava buttare via il cibo, forse perché veniva da anni difficili. Mai verrebbe da pensare che un grande personaggio fosse così attento allo spreco”.

Tazio Nuvolari?
“Con Tazio Nuvolari siamo in un’epoca precedente a quella di Giorgio Gioco, da cui ho appreso tutte queste storie. Arrivava con una macchinetta che sentivano da lontano e riusciva a salire su un carretto rimanendo in equilibrio. Qui conobbe Gabriele D’Annunzio, che in una visita al Vittoriale gli regalò una tartaruga d’oro. Da quel momento per Nuvolari diventò un talismano: pochi giorni dopo stravinse in Sicilia la Targa Florio. D’Annunzio era un grande tifoso di Nuvolari ma non lo conosceva finché il ristorante non li ha fatti incontrare”.

Gino Bartali?
“Una volta sentì dire a un tavolo vicino: “Se perdo la scommessa faccio il Pordoi senza mani”. Lui si alzò, guardò chi pronunciò questa frase e gli disse: “Forse non fa neanche il primo tornante”.

Ciclismo e calcio sono la sua passione. È tifoso?
“Sì, del Milan. Che abbino a un bollito di pesce. Secondo me manca un visionario nel metterli in campo. Non capisco la scelta (il riferimento era a Fonseca, ndr). Il Milan aveva bisogno di qualcuno che avesse un carattere diverso e che fosse un condottiero. Io speravo molto in Conte. In squadra manca qualcuno che costruisce, poi sono esterrefatto di fronte a personaggi che camminano per il campo… Lì il talento è lasciato andare. Theo Hernandez ha alti e bassi e può succedere nella vita di un calciatore. C’è qualcosa che non funziona all’interno della squadra. Ibra? In campo era quello che era, adesso non so se sia la persona giusta nel posto giusto”.

Quali personaggi ha incontrato personalmente? Quella foto con il presidente Pertini?
“In quella foto con Pertini ero proprio un bambino, avevo 18 anni e mezzo. Lui venne in visita a Verona e lo portarono qui a pranzo. Mi stupì la semplicità della persona. Subito dopo venne come ospite Giovanni Spadolini ma non lo riconobbi. Lo incontrai di nuovo quando ero più maturo al ‘San Domenico di Imola’”.

© Antonella Pelosi

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Lei ha detto: "Prediligo la semplicità del piatto all'estetica”
“La semplicità è una cosa difficile da realizzare, specialmente in cucina è cosa per pochi. Per tirare fuori emozioni da poche cose bisogna manipolarle bene”.

Cosa vuol dire semplicità in cucina?
“Semplicità è creare un piatto con due, tre ingredienti, rispettarlo e valorizzarlo. Il wafer (uno dei suoi piatti simbolo, composto da tartàre di branzino, caprino e liquirizia, ndr) non è semplice: nasce in anni in cui non avevo ancora capito il significato di questa parola ed è frutto di una formazione ‘barocca’. A 45 anni ho cominciato a imparare uno stile ‘marchesiano’ e a vedere la cucina da un’altra prospettiva”.

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Impegno, dedizione, passione e rigore. Queste sono le parole che ha usato per descrivere la sua cucina. Il talento quindi non basta...
“No, non basta. Non faccio nomi ma ho visto tanti chef con il talento che si sono persi. Credo che dipenda anche dal carattere, in questo lavoro capita di prendere qualche bella batosta”.

"Bastano tre elementi per fare un grande piatto, riuscirci è sempre una sfida". Le sue sfide le ha sempre vinte?
“No, ne ho persa qualcuna. L’importante è non farsi del male”.

In cucina in cosa consiste il talento?
“Per prima cosa è il gusto, la sapienza di mettere insieme sapori e ingredienti. Non tutti ce l’hanno, qualcuno ci arriva con l’esperienza. Il talento si coltiva e qui subentra la passione e la dedizione”.

Quali personaggi passati da questo ristorante le hanno ispirato un piatto nuovo?
“Il piatto ‘Insalata, carciofi e zabaione all’erba cipollina’ è un omaggio alla Callas, che amava lo zabaione. Un giorno Dino Buzzati, tornando dalla montagna, bussò alla porta del ristorante: ‘Buongiorno, mi scusi, mi son fermato perché vorrei mangiare qualcosa. È possibile?’. ‘Non c’è molto, ma qualcosa posso prepararlo’, gli rispose Giorgio Gioco. Gli presentò il Monte Veronese, formaggio tipico della provincia di Verona, con l’olio di oliva. Così è nato il raviolo all’olio e Monte Veronese, dedicato a Buzzati e Giorgio Gioco. Per Tazio Nuvolari l’ho solo pensato: un sashimi al puntel, perché lui era della provincia di Mantova e nel suo paese fanno il risotto col puntel, fatto con la pasta del salame e sotto una braciola. Ho scritto la ricetta ma non ho avuto il tempo di provarla. Comunque sono convinto sia un buon piatto”.

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Quando pensa a un piatto nuovo quanto tempo passa prima che vada in menu?
“Ci sono alcuni piatti che vengono inseriti subito dopo averli provati, altri che hanno bisogno di più tempo: magari sono ottime idee e anche apprezzate ma non mi convincono nella loro gestione”.

"Più sopravvalutata della cucina c'è solo il calcio". Parole dello chef spagnolo Rafa Peña. Cosa ne pensa?
“Si parla molto di cucina anche in televisione e questo è servito molto per sdoganarla. Poi c’è stato un eccesso. Tanti si consideravano chef senza esserlo realmente. La scuola alberghiera è una scuola professionale che purtroppo non insegna più una professione, è diventata più un traghetto per arrivare facilmente all’università”. 

Qual è il percorso per diventare chef?
“È una vocazione e poi bisogna andare a scuola. Sia dai più bravi che da quelli meno bravi ma che fanno i numeri. Ti insegnano a organizzare, è fondamentale”.

Quanto conta la squadra in questo lavoro?
“Moltissimo, da solo non andrei da nessuna parte. Ho un gruppo di 22 ragazzi che arrivano da tutta Italia, siamo molto coesi, come una famiglia. Tutti vogliono crescere e credono nell’obiettivo di fare qualità”.

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