I possessori di PS4 possono stappare la bottiglia: ecco uno di quei giochi di cui tra vent’anni parleremo ancora
di Luca FabbriDecidere, decidere, decidere. Da anni David Cage, punta di diamante di Quantic Dream (lo studio dietro al pionieristico Heavy Rain, allo sconclusionato Beyond: Due Anime e, oggi, a questo Detroit: Become Human) non fa che chiedere ai giocatori di decidere, scaricandogli addosso il barile. Posizione di vantaggio, la sua: prima costruisce storie che toccano questioni scabrose, poi offre un ventaglio di possibili direzioni che, se seguite, spesso richiedono strati di pelo sullo stomaco. Lui, intanto, col cavolo che si sbilancia: nelle sue opere - come nella vita - non esiste un percorso giusto e uno sbagliato. Con la testa imbottita di dubbi, siamo quindi noi a stabilire, entro limiti rigorosamente imposti, se andare nel luogo A oppure B, quali relazioni approfondire o rompere, se interrogare Tizio o Caio, chi vive e chi muore e, soprattutto, a quale conclusione arrivare.
I lavori di questo autore, tanto geniale quanto divisivo, non sono mai stati per tutti e, meglio chiarirlo subito, Detroit non fa eccezione. Infischiandosene dei detrattori della sua filosofia, Cage tira dritto a testa bassa e ci pone, di nuovo, innanzi a un gioco dove si gioca tutto sommato poco, fondato su una sterminata sequela di responsabilità da assumersi e micro-azioni da compiere premendo il tasto, o la combinazione di tasti, suggerita a schermo, spesso entro pochi secondi. Sbagliando l’esecuzione, si rischia di alterare, talora irrimediabilmente, il corso degli eventi. I maldestri sono avvisati.
La novità è che, per la prima volta, il regista gioca a carte scoperte piazzando, nel menu di pausa, un grafico mirato a illustrare la sconcertante quantità di rivoli in cui può incanalarsi la sceneggiatura di Detroit che, fosse data alle stampe, formerebbe un tomo di oltre 3.000 pagine. Beninteso, il diagramma non svela alcunché della trama e rappresenta solo il numero di possibili diramazioni che partono da ogni snodo. Ogni sezione può essere rigiocata compiendo (o non compiendo) determinate azioni, le cui conseguenze potrebbero condizionare, anche radicalmente, il decorso delle sequenze successive. Ad esempio, ispezionando lo studio e non la camera da letto non troveremo mai una pistola da estrarre, magari due capitoli dopo. Oppure, facendo una domanda al posto di un’altra avremo - o non avremo - accesso a informazioni, che potrebbero poi sbloccare opzioni, oggetti, luoghi altrimenti preclusi. Una sottilissima linea unisce in modo stupefacente tutti i punti della storia, che comincia nel 2038.
Una metropolitana collega New York a Los Angeles permettendo ai pendolari di uscire da lavoro nella Grande Mela e, due ore dopo, mangiare un boccone a Santa Monica. Il libro più venduto dell’anno è stato scritto da un algoritmo in grado di intercettare i gusti del pubblico. Le automobili senza pilota in caso di incidente stabiliscono quale sia il male minore, investendo, ad esempio, un pedone al posto di un altro in base a sesso, età, etnia, cartella clinica, aspettativa di vita e utilità sociale a seconda della professione (i medici stiano tranquilli, gli avvocati un po’ meno). L’innalzamento delle acque provocato dal surriscaldamento globale spinge i ricchi di Miami a comprare casa nell’entroterra, rinunciando alla vista mare.
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Bazzecole, in paragone alla vera svolta dell’epoca: la diffusione di massa degli androidi. Esposti in vetrina nei centri commerciali, costano come un figlio all’università, ma l’investimento garantisce soddisfazioni. Gli automi guidano veicoli, portano fuori l’immondizia, spazzano, lavano il didietro ai vecchi, consegnano la pizza. Non solo: accudiscono la prole mentre i genitori si rilassano, impollinano i fiori (le api sono estinte), tengono la bocca chiusa durante e dopo il sesso, militano addirittura nell’NBA. Epicentro della nuova rivoluzione delle macchine è Detroit - la città che oltre un secolo prima aveva stravolto le abitudini dell’uomo intasando il pianeta di automobili - dove CyberLife, leader nel settore, sforna robot simili come gocce d’acqua agli esseri umani.
A Cage non interessano teletrasporti, navi spaziali, alieni o spade laser. Nelle intenzioni dell’autore Detroit raffigura la naturale prosecuzione del nostro mondo, una società in cui il livello di automazione è tale che il tasso di disoccupazione sfiora il 37 per cento e, di conseguenza, ogni giorno rivolte di disperati infiammano le piazze. In questa cornice si intersecano le esistenze di Kara, Markus e Connor, i tre androidi che controlleremo, accomunati dal rapporto con la “devianza”, ovvero dalla possibilità che una macchina si umanizzi ed esca dalle logiche per cui è stata programmata.
Kara svolge i lavori di casa e fa da baby sitter alla figlia di un manesco tossicodipendente che, rimasto single e senza lavoro, riversa le proprie frustrazioni sulla bimba. Markus è amatissimo dal vecchio pittore in sedia a rotelle cui fa da badante: l’uomo gli ha insegnato l’amore per le lettere, la musica, la filosofia. Passioni che non sfiorano il figlio dell’artista, sedotto unicamente dal conto in banca del padre e geloso del robot. Connor è un prototipo di ultima generazione messo a punto da Cyberlife per assistere un poliziotto - un alcolizzato che non sopporta gli androidi - nelle indagini sui devianti, considerati una minaccia per l’intero sistema. Pochi giochi come Detroit più che di risposte abbondano di interrogativi: di fronte al penoso spettacolo della bimba presa a cinghiate dal padre, è giusto che l’intelligenza artificiale susciti in Kara empatia nei confronti della piccola? In tal caso la società può permettersi che una macchina aggredisca un umano, per giunta davanti agli occhi della figlia, diventando ufficialmente un deviante (col fiato di Connor sul collo)?
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I titoli diretti da Cage o si amano o si odiano. L’invadenza della regia condiziona ogni scena. Si interagisce con l’ambiente e si va in una direzione solo se l’autore, un maniaco del controllo come pochi, lo ha stabilito. I muri invisibili sono ovunque. Giocando uno spezzone ambientato al parco molti potrebbero spazientirsi scoprendo che a Markus non è consentito esplorare liberamente l’area, potendo solo percorrere un paio di sentieri. Chi non ha apprezzato Heavy Rain, insomma, difficilmente amerà Detroit. Eppure, riteniamo che lasciar perdere questo gioco sarebbe un delitto. A livello tecnico il prodotto splende di luce propria: la naturalezza della recitazione, la resa della mimica facciale e delle animazioni, il fotorealismo della grafica, rendono l’esperienza quanto di più gratificante si possa trovare su console. Ma il vero pezzo da novanta qui, inutile girarci attorno, è il tremendo impatto emotivo della narrazione, mai nei precedenti titoli Quantic Dream così stratificata, profonda, destabilizzante. Vent’anni di carriera e qualche scivolone dopo, David Cage si conferma una delle migliori firme della sua generazione. Un purosangue.
Come lo abbiamo giocato
Abbiamo provato Detroit: Become Human grazie a un codice per il download fornito da Sony. La prova è avvenuta collegando una Ps4 Pro a un televisore LG da 60 pollici Ultra HD 4K (con upscaler per guardare qualsiasi contenuto in Ultra HD), senza HDR. David Cage in una recente intervista ha dichiarato che per arrivare in fondo alla storia servono 10 ore, che salgono a 25 se si vogliono giocare tutte le possibili alternative. Sarà. Onestamente ce ne abbiamo messe molte di più.
Può piacere a chi…
… ritiene che i videogiochi debbano prima di tutto avere una trama di spessore
… vuole tematiche adulte e complesse
… adora le storie a bivi
Potrebbe deludere chi…
… soffre come un cane se non ha a disposizione mondi virtuali da esplorare liberamente
… non è interessato all’aspetto narrativo di un videogioco
… non può vivere senza giocare online con altri
Detroit: Become Human è un prodotto consigliato ai maggiori di 18 anni.