Dopo aver lasciato un segno indelebile nei giocatori col primo capitolo, gli sviluppatori di Naughty Dog tornano con un sequel imperdibile
di Luca Fabbri© IGN
“Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c'è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un'origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri”. In più di un’intervista Neil Druckmann - punta di diamante del team di Naughty Dog - ha dichiarato di essersi ispirato al Pulitzer “La Strada” di Cormac McCarthy nella scrittura del primo The Last of Us. E non solo per la comune ambientazione in una civiltà al collasso. Il vero anello di congiunzione tra le due opere è il dolore. La perdita. Nessuno nei videogiochi aveva raccontato i sentimenti in modo così ruvido e credibile.
The Last of Us ha toccato le corde di milioni di persone, diventando un punto di riferimento per l’intero settore. Dall’oggi al domani lo stesso Druckmann si è ritrovato da stimato professionista ad autore di culto. Inevitabile allora, col sequel all’orizzonte, che uno sciame di invidiosi speri, con segreto piacere, in un passo falso. Forse così trovano spiegazione mesi e mesi di polemiche e speculazioni senza tregua, dalle scene lesbo tra ragazzine, alle uccisioni dei cani da guardia apparse nei trailer promozionali, per arrivare alle cronache sulle condizioni di lavoro degli sviluppatori, fino alla sconsiderata pubblicazione sul web di interi spezzoni di gioco.
Morale: il clima che precede l’uscita di The Last of Us: Part II pare una cappa sottovuoto. Il titolo cade nel paradosso di non avere il fiato sul collo - non occorre tirare la volata a PS4, la macchina sul mercato ha, da tempo, stravinto - eppure di aver tutto da perdere, perché con quel predecessore lì qualsiasi risultato diverso dalla perfezione verrebbe considerato come minimo un fallimento.
Il quesito a questo punto è ineludibile: siamo di fronte a un capolavoro? La risposta dipende da cosa cercate in un videogioco. Se pretendete un’esperienza pionieristica, carica di idee mai sperimentate prima, probabilmente questo seguito - ma il discorso, allora, valeva anche per il capostipite - vi lascerà l’amaro in bocca, perché, detto brutalmente, a livello di meccaniche qui non c’è nulla che non abbiate già visto altrove.
Allo stesso tempo se per voi la componente narrativa di un’opera passa in secondo piano, se, insomma, volete solo ‘giocare’ anestetizzando il cervello, non coglierete mai la grandezza di un lavoro in cui ogni singolo passaggio - dal ritmo dell’avventura, alla conformazione dei livelli, fino ai combattimenti - è ostinatamente piegato alle esigenze del racconto. The Last of Us: Part II, richiede infatti che vi abbandoniate al suo poderoso intreccio, concedendogli la fiducia, il respiro e le pause di riflessione che merita, soffermandovi su ogni dettaglio, su ogni linea di dialogo, sulle storie di protagonisti e comprimari che trascendono il filone principale, sulla spiazzante colonna sonora. Solo così potrete apprezzare la filigrana di una sceneggiatura la cui ambizione non ha semplicemente eguali nel panorama odierno.
Tutto ha inizio nel 2038. Sono passati 25 anni dalla pandemia del Cordyceps, un fungo dalle spore che aggrediscono direttamente il cervello, provocandone la progressiva degenerazione, e trasformano l’ospite in un’immonda aberrazione. Nel giro di pochi mesi oltre il 60% della popolazione mondiale è stato infettato o ucciso. Da allora i sopravvissuti vagano come nomadi alla costante ricerca di provviste o, quando va bene, hanno fondato comunità organizzate, come Jackson, in Wyoming.
Qui da almeno un lustro vivono Joel e Ellie, i protagonisti del titolo precedente: il primo non fa più il contrabbandiere, lavora per la collettività, nel tempo libero suona la chitarra, insomma ha cambiato vita. È invecchiato. La seconda ora ha 19 anni, l’età in cui l’amore scortica vivi, e guardacaso ha un flirt, con una coetanea, Dina. Come tutte le ragazze delle nuove generazioni, sono state addestrate precocemente a maneggiare le armi, per proteggere se stesse e la contea. Ma durante un giro di perlustrazione accade un imprevisto che cambierà per sempre la vita di Ellie e la porterà, insieme alla socia, a Seattle. Un territorio decisamente ostile: il regime militare costituito dopo l’epidemia è stato spazzato via e ora la zona è teatro della guerra civile tra due fazioni, il Fronte di Liberazione dello Stato di Washington e i Serafiti, una setta di invasati. Cosa avranno da nascondere? Ma cosa esattamente sta cercando Ellie?
Dopo un incipit di un’oretta abbondante - dal ritmo, a tratti, persino soporifero - la trama sterza in una direzione totalmente inattesa. È il primo, terribile, snodo (ce ne saranno almeno altri tre-quattro) in cui vi renderete conto di che pasta sono fatti Druckmann e i suoi: questa è gente che non ha paura di niente. E non ci riferiamo solo al merito, cioè ai fatti che accadono a schermo, ma anche al metodo, ossia alla regia, al piglio, alla sicurezza con cui le sequenze più scomode o scabrose sono state girate.
Ci vogliono gli attributi per prendersi dei rischi del genere, per inscenare, senza ipocrisie o infingimenti, la lotta per la sopravvivenza in una civiltà estinta. Ci vuole lucidità per mantenersi equidistanti rispetto agli eventi, dando voce e dignità alle ragioni degli altri, perché nell’America di The Last of Us, un po’ come nella vita, la verità non sta mai da una sola parte. Ci vuole fegato per colpire continuamente a freddo seguendo la propria visione fino in fondo, infischiandosene dei moralismi da salotto, dei linciaggi della buoncostume, che, statene certi, sentirete, oh se li sentirete. Ci vuole talento per inchiodare allo schermo per almeno 30 ore fino ai titoli di coda, senza un calo di tensione, una banalità, una caduta di stile o un momento di noia. Insomma, possiamo girarci intorno quanto vogliamo, ma la verità è che sul mercato non esiste un prodotto scritto in modo viscerale, feroce e anticonformista come The Last of Us: Parte 2.
Un tale livello di immedesimazione è possibile perché storia e azione formano un corpo inscindibile. L’avventura, in terza persona, espande la formula dell’originale e alterna registri diversi, tra fasi di silenziosa esplorazione, flashback interattivi, momenti horror e violentissimi combattimenti. Siccome per buona parte della campagna impersoneremo Ellie, dovremo contare più sull’agilità che sulla forza fisica. Si spiega così l’introduzione del salto, della schivata, dell'arrampicata, delle corde, delle funi da lanciare o a cui aggrapparsi per raggiungere zone altrimenti inaccessibili. La cura riposta nel design dei livelli rasenta il maniacale: oltre alle dimensioni delle aree, davvero mastodontiche per un titolo lineare, colpisce, in particolare, la naturale proliferazione di radici, erbacce, muschi, rampicanti che, con la scomparsa dell’uomo, sventrano e ricoprono strade, automobili e palazzi, creando un intrico di ambienti mai uguali a se stessi.
La direzione finale resta sempre e solo quella decisa dagli sviluppatori, ma spesso le vie per arrivare in fondo sono più di una, senza contare che le aree opzionali non si riducono a qualche stanza, bensì a interi edifici. Scorte e rifornimenti non mancano, ma per trovarli bisogna setacciare un po’ ovunque, attività che richiede tempo, pazienza ed espone indubbiamente a rischi, vai a sapere cosa si nasconde dietro a quella porta sberciata. La filosofia dell’opera in compenso premia la curiosità: se, ad esempio, a Seattle non avessimo deciso di avventurarci all’interno di un paio di negozi abbandonati, non avremmo mai trovato una devastante bocca da fuoco e un manuale d’addestramento, necessario per sbloccare nuove abilità per sopravvivere.
Non solo: è ora possibile strisciare come bisce, tecnica fondamentale per sfuggire al nemico - nascondendosi ad esempio sotto a un’automobile o tra l’erba alta - e colpirlo alla sprovvista. Contro le creature conta soprattutto non finire numericamente sopraffatti: meglio quindi evitarle o sfruttare l’udito per localizzare la loro posizione, avanzare furtivamente e sorprenderle alle spalle. La strategia mostra però il fianco contro gli stalker - che, a branchi, si muovono nell’ombra e attaccano a tradimento - e, soprattutto, contro i coriacei shambler, bestioni che vomitano nubi acide capaci di corrodere ogni cosa. Ma ben più filo da torcere vi darà l’intelligenza artificiale degli avversari umani, imparagonabilmente più raffinata rispetto al predecessore.
Una volta scoperti, scatta una serratissima caccia all’uomo: i guerriglieri del Fronte, organizzati militarmente, si danno ordini ad alta voce chiamandosi per nome, battono il territorio palmo a palmo cercando, a fucili spianati, di accerchiarvi. I loro cani seguono la scia del vostro odore e dovrete inventarvi qualcosa in fretta per sbarazzarvene. I Sarafiti invece si scambiano fischi d’intensità variabile a seconda del livello d’allarme. Sono cacciatori che avanzano nel silenzio e prediligono l’arma bianca. Una volta colpiti da una loro freccia, occorre estrarla per evitare di finire dissanguati. E non sperate di farla franca restandovene immobili, ad esempio, sotto a un letto. Vi troveranno. Anche lì.
Da un punto di vista tecnico il titolo rappresenta il massimo che questa generazione di console possa offrire. Forse la grafica non raggiungerà il fulgore intravisto nei filmati di presentazione, ma chi si lamenta di una produzione simile, lasciatecelo dire, non se la merita: visivamente parlando The Last of Us: Part II è semplicemente impressionante. Giocando su PS4 Pro, l’azione resta sempre fluida, restituendo una sensazione di naturalezza accentuata dallo stupefacente campionario di animazioni ed espressioni facciali. Le strade di Seattle spazzate dal vento e dalla pioggia, così come gli interni di ogni edificio, traboccano di dettagli fino all’inverosimile, al punto che l’occhio si smarrisce costantemente.
La pesantezza dei modelli poligonali esalta la fisicità degli scontri, accentuando il senso di violenza, e il sistema di illuminazione drammatizza ogni superficie, rendendo la pelle, il sudore, l’acqua e le esplosioni in modo estremamente realistico. Volendo trovare il pelo nell’uovo si potrebbe obiettare che il livello di interazione ambientale è bassino. Effettivamente, a parte infrangere vetri e poco altro, con gli sfondi non è che si possa fare granché e gli scenari restano ritratti di decadenza urbana tanto meravigliosi quanto statici. Bisogna tuttavia riconoscere che il problema affligge buona parte dei giochi usciti in questi anni, e forse lo vedremo affievolirsi solo con l’avvento delle prossime macchine.
In conclusione riteniamo che chiunque ami questo hobby dovrebbe come minimo provare The Last of Us: Parte 2. È un titolo monumentale, appagante da vedere e da giocare, e racchiude - al pari del predecessore - una storia indimenticabile, che vi torcerà lo stomaco. A livello di scrittura oggi come oggi nessuno là fuori è in grado di competere con Druckmann e i suoi. Sono di un’altra categoria. E scusate se è poco, nella vita, essere i migliori in qualche cosa.
Come lo abbiamo giocato
Abbiamo provato The Last of Us: Parte 2 grazie a un codice per il download fornito dal distributore. La prova è avvenuta collegando PS4Pro a un televisore LG da 60 pollici Ultra HD 4K. Il comparto audio vi ipnotizzerà: impossibile non avvertire un fremito quando, di colpo, il banjo di Gustavo Santaolalla squarcia il silenzio che avvolge ogni cosa.
Può piacere a chi…
… dai videogiochi pretende una trama forte e matura
… si è commosso col primo episodio e ha atteso tutti questi anni un seguito
… ama le atmosfere horror
Potrebbe deludere chi…
… non è interessato all’aspetto narrativo di un gioco
… ha gli incubi la notte quando guarda un film horror
… si è un po’ stufato delle atmosfere post apocalittiche
The Last of Us: Parte 2 è un gioco adatto a un pubblico di età non inferiore ai 18 anni.