A volte, il modo migliore per raccontare il mondo dei videogame è proprio immergendosi nelle loro ambientazioni virtuali
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C’è chi sostiene che un mezzo di comunicazione raggiunga la maturità quando inizia a riflettere su sé stesso, sfornando storie capaci di raccontare i dietro le quinte delle varie produzioni, o rompendo la quarta parete per coinvolgere direttamente l'utente. Non sappiamo se questo concetto sia necessariamente vero, tuttavia, come spesso succede nella rubrica Cortocircuiti Pop, è interessante notare come il videogioco, pur essendo un medium relativamente giovane, abbia già fatto diversi passi in quella direzione.
Naturalmente anche il cinema, la letteratura e il teatro nel corso degli anni si sono dati parecchio da fare attraverso operazioni apertamente metanarrative.
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Senza nemmeno spostarci dall’Italia possiamo citare "Se una notte d'inverno un viaggiatore" (Italo Calvino) o "Sei personaggi in cerca d'autore" (Luigi Pirandello), che portano avanti una riflessione sulla natura della creazione artistica mettendo contemporaneamente in discussione il rapporto tra autore e fruitore, mentre con "8½" Federico Fellini ha svelato agli spettatori le idiosincrasie dietro la lavorazione di un film, fino a trascinarli all’interno dei propri ricordi.
Sempre parlando di cinema, ma spostandoci un po’ più sul recente, abbiamo la saga di "Scream", che tra le pieghe del racconto nasconde un piccolo saggio sul genere horror, e "C'era una volta a... Hollywood", dove Quentin Tarantino si diverte a rimodellare la Hollywood della propria infanzia e relativa mitologia. Naturalmente anche i fumetti sono stati messi sul tavolo operatorio da autori interessati a scomporne il linguaggio o a raccontarne l’evoluzione; vengono in mente "Watchmen", di Alan Moore e Dave Gibbons, oppure "20th Century Boys" e "Billy Bat", entrambi realizzati da Naoki Urasawa.
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E i videogiochi? Come accennato gli esempi non mancano, anche perché la natura interattiva del medium consente ai game designer di dialogare direttamente con i giocatori. Già a metà degli anni Ottanta il "simulatore di vita" Little Computer People, sviluppato da David Crane, rompeva la quarta parete permettendo agli utenti provvisti di personal computer di osservare la vita di un "omino" all’interno della propria casa, e magari farci pure una partitina a carte.
Negli anni Novanta non era raro che avventure grafiche come i due Monkey Island fossero popolate da personaggi in qualche modo consci della propria natura finzionale, tuttavia l’esperimento più noto e consapevole, in tal senso, resta quello sfoggiato dal game designer giapponese Hideo Kojima con Metal Gear Solid (1998), dove il telepate Psycho Mantis "ingannava" il giocatore leggendo i dati della sua memory card, spegnendogli la TV attraverso un effetto visivo o manipolandone il controller tramite la vibrazione.
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Non era la prima volta che Kojima ragionava apertamente sulla natura del medium, né sarebbe stata l’ultima: già il co-protagonista di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty (2001), Raiden, rappresentava a tutti gli effetti un alter ego del giocatore capace di andare oltre i confini dei soliti avatar, criticando oltretutto la violenza presente in molti videogiochi dell’epoca.
Durante gli ultimi anni e con la crescita della scena indipendente, diversi autori hanno approcciato il game design con l’intendo di smontarlo; di sovvertirne le regole in modo da spingere i giocatori a riflettere sulle sue possibilità, magari portando alla loro attenzione specifiche storie e riflessioni. Con Braid (2008), ad esempio, Jonathan Blow ha adoperato le meccaniche dei giochi di piattaforme per ribaltarne le narrazioni più tipiche, a cominciare dalla natura eroica del protagonista.
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Game Dev Story, lanciato nel 1997 dallo studio Kairosoft (ma esploso nel 2010 grazie alle versioni per dispositivi mobile) è invece un gestionale dove, anziché regolare città o ferrovie, bisogna seguire lo sviluppo di uno o più videogiochi tra nuove console in uscita, capricci del mercato e programmatori sull’orlo dell’esaurimento. In questo modo gli utenti, oltre a divertirsi, hanno la possibilità di sbirciare dietro le quinte dell’industria.
Proseguendo, sarebbe impossibile non citare in questa breve rassegna Doki Doki Literature Club! (2017), visual novel in stile giapponese creata da Team Salvato che, dopo un’introduzione piuttosto canonica, inizia a mettere in dubbio la natura della propria narrazione fino a infrangere la quarta parete, svelando così una trama da horror psicologico.
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Anche la realtà virtuale è stata utilizzata per raccontare il linguaggio e l’evoluzione del medium; ad esempio attraverso la serie Pixel Ripped, che attualmente vanta tre capitoli all’attivo ambientati rispettivamente negli anni Settanta, Ottanta e Novanta.
Tuttavia, a oggi il designer che, più di tutti, è riuscito a sviscerare la dimensione narrativa del videogioco arrivando addirittura a servirsene per raccontare la sua stessa vita è stato Daniel Mullins, autore di giochi come Pony Island, Inscryption e The Hex.
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Proprio quest’ultimo rappresenta forse il suo capolavoro: la storia ha inizio in un’oscura locanda sospesa tra le atmosfere di "Se una notte d'inverno un viaggiatore" e "Sei personaggi in cerca d’autore", e mette al centro del discorso un gruppo di misteriosi avventori sui quali pende il presagio di un omicidio.
Da lì ha inizio un’avventura densissima e piena zeppa di citazioni destinata a ripercorrere la storia dei videogiochi ma, soprattutto, a "dare in pasto" l’autore al proprio pubblico esattamente come Fellini in "8½": roba da far studiare - o meglio, giocare - nelle scuole.