Ecco i Paesi che hanno accolto più migranti
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Cosa sta succedendo in Africa? La sfida globale tra le potenze si concentra a sud del Mediterraneo, tra dismissione dell'impegno francese e occidentale e penetrazione dei "nuovi" imperi. Guida ai nuovi equilibri mondiali nel caos dal Sahel al Maghreb
di Maurizio Perriello© Ansa
Il futuro del mondo si decide in Africa. Quell'Africa che l'Occidente capisce sempre più di aver "perso", dopo averla smembrata, invasa, sfruttata, controllata e legata a sé a doppio filo per decenni, anche dopo il processo di decolonizzazione della seconda metà del Novecento. Bollandola in gran parte come Terzo Mondo ancora oggi e non riconoscendone il rinnovato protagonismo geopolitico (seppur "manovrato"), Usa ed Europa non hanno decifrato la nuova postura degli Stati di Maghreb e Sahel, sprofondati in un caos di instabilità e violenza per il vuoto di potenza lasciato dai vecchi imperi coloniali. Vuoto riempito prontamente da imperi "nuovi", ma sempre "antichi" nella loro missione di dominio universale: Russia, Cina e Turchia. Una nuova spartizione dell'Africa basata non più sulla conquista territoriale, ma sulla penetrazione economica, culturale e istituzionale. Snodo nevralgico della contro-globalizzazione a trazione cinese, col fronte Brics pronto a espandersi a sud del Mediterraneo per realizzare il progetto multipolare di un Sud Globale contro Usa, Ue e Nato, che nel frattempo convogliano impegno e risorse in Ucraina.
In Italia lo sappiamo tragicamente molto bene: il caos all'altro capo del Mediterraneo è una minaccia per l'intero sistema-mondo. E non solo per il dramma umano degli infiniti e mortali flussi migratori, che si infrangono contro i nazionalismi europei e la sostanziale flemma statunitense nell'area. Ma anche perché l'Africa è sempre più l'estesa fucina di un sentimento anti-occidentale crescente, cavalcato e fomentato dalle potenze antagoniste dell'egemonia Usa, in primis la Russia.
Con la quasi compiuta estromissione della Francia dalle sue ex colonie, nelle quali aveva continuato a mantenere basi militari e influenza, proponendosi come naturale propagine del continente per élite e classi dirigenti africane, unica via per il successo individuale e per il progresso delle instabili società locali. Parigi mantiene oltre 4mila militari tra Senegal (350), Costa d'Avorio (950), Niger (1.100), Gabon (350) e Gibuti (1.500). Tanti, ma mai quanto quelli americani, il cui Africom (African Command) conserva i suoi quartier generali in Germania e a Napoli e dispiega 7.200 militari e 27 basi in terra africana. Undici di queste sono enduring (permanenti), sparse fra Senegal, Burkina Faso, Niger, Ciad, Ghana, Uganda e Kenya. Altre 16 svolgono funzione di contingenza in Tunisia, Mali, Niger, Tripolitania, Ciad, Somalia, Camerun e Uganda.
La crisi dell'influenza occidentale in Africa è evidente nella crisi della cosiddetta "Franciafrica", la rete di relazioni neocoloniali che Parigi ha stretto con le ex colonie e in generale coi Paesi francofoni all'indomani dell'indipendenza dei singoli Stati africani. L'espressione risale al 1955, quando l'allora presidente della Costa d'Avorio, Félix Houphouët-Boigny, volle dare un nome all'aspirazione di diversi dirigenti africani di conservare delle relazioni privilegiate con la Francia. Il golpe in Niger, dopo quelli in Mali e Burkina Faso (che con il leader Traoré ha di fatto "cacciato" i francesi), ha segnato in qualche modo la fine di questo progetto, sfociato nel suo opposto. Il Niger rappresenta(va) di fatto "l'ultimo avamposto occidentale nel Sahel", la cui crisi è conseguenza diretta e amplificata della crisi in Libia scatenata negli Anni Quaranta proprio dalla Francia, poi deflagrata nel 2011 con l'uccisione di Gheddafi. Da allora il jihadismo salafita si è imposto nel Fezzan libico, cuore strategico delle rotte attraverso il deserto, per poi espandersi in tutta la fascia sub-sahariana, facendo esplodere definitivamente il tritolo geopolitico sparso dagli occidentali. La velleità francesi nell'area si sono spente col fallimento definitivo delle operazioni Takuba (giugno 2022) e Barkhane (novembre 2022) in Ciad.
Con la decisione degli Stati Uniti di "alleggerire" la presenza nel Mediterraneo per proiettarsi più convintamente nell'Indo-Pacifico, all'epoca di Obama, anche il resto dell'Occidente ha mollato la presa sull'Africa. Compresa l'Italia, che in Libia conservava un'indubbia influenza per passato coloniale e legami culturali, certificata dagli accordi di Bengasi del 2008: Roma garantiva riparazioni e supporto internazionale, in cambio di gas e controllo dei flussi migratori. Francia e Regno Unito, guidate dagli Usa, hanno però scelto di usare le primavere arabe del 2010-2011 per estremottere Gheddafi, dissolvendo così anche l'influenza italiana sul Nordafrica. Gli occidentali non avevano realizzato alcun piano preciso sul "dopo". La Libia venne divisa in due e finì in mano agli avversari dell'Occidente, le contrapposte Russia (in Cirenaica) e Turchia (in Tripolitania), che hanno così potuto ricattare l'Ue sul fronte migranti, aprendo i rubinetti dei traffici di esseri umani a loro piacimento e senza troppi scrupoli. L'instabilità libica ha generato e moltiplicato quella dell'adiacente Sahel, ingigantendo la porzione di "terra di nessuno" in mano a estremisti, gruppi paramilitari stranieri, tribù, milizie Tebu, tuareg e alleati. Prima di venire travolto dalla nuova ondata anticoloniale esplosa coi colpi di Stato del 2020-2023, l'Occidente ha inoltre fornito il know-how militare agli africani. L'Italia stessa ha provveduto ad addestrare circa 10mila militari del Niger, tra cui un reggimento di paracadutisti (il 322esimo) che hanno partecipato al golpe.
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Erede di quell'Unione Sovietica che dagli Anni Cinquanta e Sessanta supportò le rivoluzioni anticoloniali (e socialiste) in numerosi Stati africani, la Russia è penetrata in Siria e ha utilizzato il conflitto civile come trampolino per proiettarsi nel Continente Nero. La vocazione securitaria e militare di Mosca l'ha portata a divenire il primo fornitore di armi in terra africana (il 40% del traffico, contro il 16% degli Usa e il 10% della Cina; e parliamo solo delle transazioni legali), esportando inoltre un modello di successo: il modello Wagner. Il Gruppo paramilitare, seppur orfano del suo leader maximo Prigozhin, resta centrale per l'esportazione degli interessi russi in Africa, dove di fatto controlla e amministra non solo i traffici illegali di armi ed esseri umani, le estrazioni minerarie e la sicurezza, ma anche la gestione socio-economica di intere aree sostituendosi alle autorità locali. Braccia e mani russe allungate sull'Africa, con la complicità di Paesi terzi come gli Emirati Arabi Uniti, dove ad esempio l'oro sudanese viene convertito in dollari finanziari.
Forte di questo ruolo indispensabile, la Wagner ha sfidato Putin marciando su Mosca a giugno, opponendosi alla decisione del Cremlino di nazionalizzarla e inglobarla negli odiatissimi apparati della Difesa (oltre che nel ministero degli Esteri russo, "annacquando" ancor di più la compagnia di mercenari, come avevamo anticipato prima della rivolta di Prigozhin). E' finita come sappiamo, ma Putin ha lavorato per non mollare la presa sul Continente, organizzando ad esempio il vertice Russia-Africa a San Pietroburgo e ribadendo il proprio soft power e la costruita vicinanza culturale tra Paesi del Sud Globale. Vicinanza testimoniata, tra l'altro, dal gran numero di africani che hanno studiato e studiano presso l'ex Università Lumumba di Mosca, ribattezzata "Università russa dell'amicizia tra i popoli". Tra i popoli non occidentali e contro-occidentali, s'intende. Putin dovrà riuscire a raccogliere l'eredità di Prigozhin senza dissiparla; un'eredità di oro, diamanti, uranio e potere, declinato soprattutto nel controllo delle rotte migratorie. Triplo ricatto carpiato all'Ue: gas chiuso a Nord, sfruttamento dell'uranio a Sud e dei flussi di profughi attraverso il Sahel verso la Libia.
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Mentre la Francia ha preferito dissipare il suo primato culturale e di lingua, puntando sulla presenza militare, la Cina ha potuto presentarsi ai partner africani come la grande potenza che non ha partecipato alla disumana corsa all'Africa avvenuta dal 1880 in poi. Un'ostentata quanto falsa "parità". Tale propaganda ha fatto da base ideologica per una penetrazione economica e istituzionale senza precedenti, che mira a controllare più o meno indirettamente tutta la fascia del Sahel, dal Corno d'Africa e dal Mar Rosso fino all'Atlantico (approndando in Senegal). Una colonna vertebrale di oltre ottomila chilometri, con osso sacro piantato a Gibuti, sullo Stretto di Bab el-Mandeb, dove Pechino ha stabilito la sua prima e finora unica base militare all'estero, a "protezione" di uno dei choke point più importanti del mondo per il commercio e il transito di navi. Per consolidare questa sua posizione, la Cina ha investito miliardi di dollari in infrastrutture e attività industriali africane, a partire proprio dalla costruzione del vicino porto di Doraleh (cruciale per il collegamento Africa-Europa-Asia) e della linea ferroviaria elettrica Etiopia-Gibuti. La cerniera commerciale cinese in Africa orientale si chiude con i porti di Massaua, in Eritrea, e di Haibob, in Sudan. Tutti finanziati dalla China's Merchants Holdings Company. La riscoperta debolezza occidentale ha spinto il Dragone a legare economicamente a sé anche Paesi affacciati sull'Atlantico come Nigeria, dove sta costruendo il porto di Lekki tramite la China Harbour Engineering Company.
In mezzo c'è l'instabile e frammentato Sahel, in cui Pechino si impone come "benefattrice" contro povertà e carestia e al contempo estrae minerali preziosi, terre rare e materie prime strategiche. Nel destabilizzato Niger, ad esempio, la China Petroleum Pipeline Engineering Co. Ltd. ha avviato la costruzione di un oleodotto di quasi 2mila chilometri fino al Benin e all'Oceano. Il tutto alimentato dal petrolio greggio estratto in Ciad, dove la China National Petroleum Company controlla la produzione da vent'anni. Le offerte d'investimento cinesi arrivano fino a picchi di 10 miliardi di dollari anche in Paesi dell'Africa australe come Zambia, Angola e Sudafrica, con la realizzazione di Sez (Zone economiche speciali) in Tanzania, Mauritius ed Egitto. Un autentico impero economico afferente alla Belt and Road Initiative, il progetto delle Nuove Vie della Seta che collega Est e Ovest del mondo, approdando nel cuore della Germania, proponendosi come alternativa alla globalizzazione a guida Usa. Una delle sfide più grandi ed esplosive del confronto globale tra Washington e Pechino.
A differenza di Mosca e Pechino, Ankara può vantare un legame antico con l'Africa orientale, che fu parte dell'Impero Ottomano. Il rischio di passare per "colonialista" era forte, ma la Turchia è riuscita a ribaltare la prospettiva raccontandosi come "partecipe" di un destino comune di nazioni "dimenticate" dall'Occidente. L'imperativo strategico per Erdogan è ovviamente l'accesso agli oceani, in nome del quale ha innanzitutto preso il controllo della Tripolitania, opponendosi di fatto alla Cirenaica russa, e legato fortissimo a sé la Somalia. Due ex colonie italiane, che Roma aveva strappato proprio ai turchi nel 1912. Il silenzio e l'inazione italiane hanno lasciato un vuoto riempito prontamente da Ankara, che con droni Bayraktar e mercenari siriani ha supportato la resistenza di Al Sarraj contro il generale Haftar, fino al cessate il fuoco con la Cirenaica e la decisione di far passare il confine fra le due Libie sulla linea Sirte-al-Gufra. L'influenza turca sull'ovest libico è proseguita anche con l'ascesa del successore di Al Sarraj, il premier Dabaiba. Con il Paese africano che ha riconosciuto le Zee (Zone economiche esclusive) turche sul Mediterraneo orientale, elemento irrinunciabile del progetto imperialista sul mare denominato "Patria Blu". Anche in questo caso l'appartenenza ha giocato un ruolo centrale: il "cognome" Dabaiba è di origine turca, così come quello di 1,5 milioni di libici su un totale di 7 milioni. La ricostruzione della Libia rappresenta inoltre un gigantesco affare da 20 miliardi di dollari per le imprese edilizie turche, che non si fanno problemi a concludere affari anche con la "nemica" Tobruk.
Quando nel 2005 Erdogan visitò per la prima volta l'Africa da primo ministro turco, fu proclamato "l'anno dell'Africa". Dall'anno si è poi passati al decennio e al ventennio, con Ankara che ha quadruplicato le ambasciate nel continente nel Nuovo Millennio: dalle 12 del 2002 alle 44 del 2022. Anche il volume commerciale è cresciuto in modo decisivo, aumentando di 7 volte rispetto a quello del 2002 (da 5,4 miliardi a 34 miliardi di dollari). Potere economico, ma anche soft power, in scia alla strategica missione panislamica inaugurata da Erdogan, che si dipana a livello istituzionale attraverso agenzie e fondazioni come Tika, Afad e Diyanet (Direttorio per gli affari religiosi). Un centro nevralgico per il successo della missione turca in Africa è senza dubbio la Somalia. Ankara è stata abile a inserirsi nelle lotte interne per il potere dopo il crollo istituzionale del 1991, con Erdogan che ha offerto riconoscimento internazionale al governo di transizione nonostante il separatismo a nord della Repubblica autoproclamata di Somaliland. Non è un caso che la più grande ambasciata turca sia sorta a Mogadiscio, dove si staglia tra l'altro anche Turksom, base militare di Ankara capace di ospitare 1.500 reclute somale ufficialmente col compito di combattere gli estremisti di Al Shaabab. La presa turca si completa con i costanti aiuti umanitari, il supporto medico e la formazione universitaria offerti dal regime di Erdogan.
La sfida per l'egemonia globale passa dunque infallibilmente dal composito controllo del continente africano. Con i moderni imperi che corteggiano allo stesso modo anche il resto del Sud Globale, in primis l'America Latina. Ma questa è un'altra storia.