Raccontando i sogni di future terroriste e aspiranti miss, il film di Nisha Pahuja scardina i pregiudizi che ruotano attorno a un mondo per molti versi ancora sconosciuto
In India può accadere che si uccida una sorella per difenderne l’onore, perché innamorata di un uomo di una casta inferiore. Può accadere che si abusi di una bambina di due anni, abbandonandola poi, sanguinante, sul ciglio della strada. Può accadere che, in gruppo, si strazi il corpo di una ragazza di 23 anni, per semplice voglia di sesso, destinandola a una morte certa per le lesioni riportate. E può accadere, infine, che quegli stessi stupratori vengano condannati a morte, nell’illusione che “eliminando l’uomo si elimini il problema” quando forse, la causa della violenza di genere si trova molto, molto più nel profondo, nei valori e nei modelli di comportamento di un’intera società, e non può essere estirpata con qualche cappio al collo.
Ma la vita delle donne indiane non è fatta solo di violenze: comprende realtà molto più sfaccettate e complesse di quanto immaginiamo, spesso anche contraddittorie tra loro. Ce lo racconta la regista indiana Nisha Pahuja, nel suo documentario “The world before her” (“Il mondo prima di lei”), vincitore nel 2012 del premio come Miglior film documentario al Festival di Tribeca 2012 e Miglior film all’ Hot Docs Canadian International Documentary Festival 2012.
Le piccole donne indiane crescono, e lo fanno cercando l’emancipazione in modi opposti. C’è chi vuole trasformarsi in una “tigre”, per difendere la propria religione dagli attacchi dell’occidente, e frequenta i campi di addestramento degli estremisti induisti, detti anche “i talebani hindu” (anche se questi stessi estremisti spesso accusano le donne di contaminare la religione, e le pestano a sangue se le incontrano in compagnia di un uomo o al bar a bere un drink). E poi ci sono le reginette di bellezza, le aspiranti Miss India per le quali il futuro migliore scorre su una passerella dell’alta moda, e il mondo dello spettacolo è un’occasione per rendersi indipendenti e, quindi, pari agli uomini.
"Francamente, odio Gandhi”, rivendica con orgoglio Prachi. “Non ce ne andiamo in giro ad uccidere la gente ma, se qualcuno si dovesse mettere contro la mia religione, non fuggirò né mi nasconderò, perché non si tratta di hinsa (omicidio), ma di autodifesa”. E poi c’è Ankita, convinta che “Miss India mi darà l’identità che merito, la mia vera identità: otterrò il rispetto che merito, in una società che, come sappiamo, è dominata dagli uomini”. Due delle tante voci che, nel bellissimo documentario della Pahuja, raccontano la difficile convivenza tra valori dell’induismo e culto della bellezza, tradizione e chimere dell’occidente.