Teheran, in migliaia al funerale di Nasrallah | Khamenei con un fucile al fianco
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La tregua impossibile a Gaza e il conflitto che si sposta in Libano. E in Cisgiordania. La posizione degli Stati Uniti, prossimi al voto presidenziale. Cosa è successo finora e perché. E cosa può succedere adesso
di Maurizio Perriello© Afp
È diventato un conteggio terribile. Quello dei giorni di guerra, quello delle bombe, quello dei morti. A un anno dal 7 ottobre che ha cambiato per sempre il futuro del Medioriente, affondando la rabbia nella selva della storia, abbiamo capito che il conflitto non è tra Israele e Hamas. Non solo, perlomeno. Il brutale attacco degli islamisti di Gaza ha ferito l’intero Occidente e provocato una perentoria e incessante risposta da parte dello Stato ebraico, che ha trasformato la Striscia in un inferno a cielo aperto. Tristissimo dirlo, ma questa è soltanto la più piccola delle scatole cinesi che imprigionano quest’angolo di mondo in conflitti concentrici. A un livello superiore vediamo che la guerra è tra Israele e Asse della Resistenza, Mezzaluna sciita per noi occidentali, formata anche da Hezbollah, Houthi e milizie filo-iraniane in Siria e Iraq. Ora in campo c’è il partito-milizia libanese, indebolito pesantemente dall’ondata di assassinii mirati contro i suoi vertici ma considerato ancora il più potente tra i satelliti di Teheran. A dare alle fiamme tutte le pareti di cartone delle scatole più piccole è proprio la contesa tra Israele e Iran. E, dunque, tra Stati Uniti e Iran. Lo avevamo già sottolineato mesi fa, nel tacciare lo schema delle alleanze in Medioriente, ma oggi appare tutto più evidente. Lo scenario nefasto di un’invasione israeliana del Libano porterà a uno scontro allargato e incontrollato?
Rimandiamo un attimo indietro il nastro di un anno. Erano da poco passate le 6:30 del mattino quando vennero sparati i primi colpi. Un'ondata di combattenti di Hamas penetrò nel kibbutz Kfar Aza, sfondando la recinzione di confine tra Gaza e Israele e sorvolandola con i deltaplani. I residenti si nascosero nei loro rifugi, incerti su cosa stesse succedendo. Il kibbutz, a soli tre chilometri dalla frontiera, è stato uno dei primi raggiunti dai terroristi quel sabato mattina.
Verso le 9 arrivò una seconda ondata di attacchi. L'effetto sorpresa e le falle nella sicurezza hanno ritardato l’arrivo dei militari israeliani a 12 ore dal primo blitz fondamentalista. I combattimenti sarebbero finiti soltanto tre giorni e mezzo dopo. Nel mentre, la peggiore tragedia per la comunità ebraica dalla Seconda Guerra Mondiale: furono uccisi 1.200 israeliani, tra civili e soldati, e ne furono rapiti 250. Trenta erano bambini. L'Onu ha in seguito rinvenuto tracce e prove di violenze fisiche e sessuali ai danni dei prigionieri. Hamas ha giustificato l'offensiva come reazione alle azioni provocatorie israeliane presso la Moschea al-Aqsa e alle violenze perpetrate nei campi dei rifugiati in Cisgiordania. Il tutto attaccando lo Stato ebraico nel giorno del 50esimo anniversario della guerra dello Yom Kippur. Israele vedeva il proprio territorio invaso per la prima volta dal conflitto del 1948 e per la prima volta dal 1973 decise di dichiarare formalmente la guerra nella Striscia, allo scopo di eradicare Hamas.
L'azione di Hamas, oltre a rispondere a una propria agenda interna palestinese, rivela la mano lunga del suo grande sostenitore: l'Iran. Fin dall'invasione americana dell'Iraq, proseguendo per le primavere arabe e per la guerra civile siriana, Teheran ha trovato terreno fertile per penetrare nei Paesi del Medioriente. Anche in quelli arabi, nonostante i persiani si percepiscano come l'opposto geometrico degli arabi in materia di identità etnica e civiltà. Ci sono riusciti grazie alla confessione sciita, a sua volta opposto geometrico del sunnismo largamente maggioritario negli Stati della Penisola arabica.
Attraverso la dottrina del panislamismo Teheran ha attirato tutte quelle sacche religiose che nelle proprie comunità nazionali erano la minoranza, offrendo un'alternativa. In questo modo hanno serrato a sé ampie parti di Iraq, Siria, Yemen, Libano, perfino dell'Arabia Saudita (in particolare la costa che si affaccia sul Golfo Persico). Non è altro che l'Asse della Resistenza. Dove "resistenza" si riferisce retoricamente alla lotta "al sionismo e al colonialismo occidentale e degli Stati Uniti", come ebbe modo di ricordare l'ayatollah Ali Khamenei già nel 2013. A questi attori statali e sub-statali l'Iran ha in pratica delegato il contenimento di Israele, avviando una guerra per procura. Creando una rete che coinvolge anche importanti centri in Afghanistan.
Col supporto, il finanziamento e l'addestramento fornito ai gruppi sciiti o comunque filo-iraniani nella regione, la Repubblica Islamica vuole annullare Israele. E lo vuole fare distruggendo gli Accordi di Abramo, cioè il processo di normalizzazione diplomatica (ma anche commerciale e a ogni livello) tra lo Stato ebraico e le monarchie arabe. Parliamo di Emirati Arabi Uniti, Marocco, Bahrein, Sudan e Arabia Saudita. Il negoziato con quest'ultima era in stato avanzato un anno fa. Da qui la pianificazione del maxi attacco da parte di Hamas il 7 ottobre, mentre Israele e Stati Uniti se ne sarebbero aspettato piuttosto uno proveniente dal nord, a opera dei libanesi di Hezbollah.
Nei piani di Teheran c'è un chiaro disegno strategico che vuole unire la Persia al Mediterraneo, tentando di contrastare il parallelo progetto di Washington di un corridoio che leghi il mare nostrum all'Oceano Indiano, passando per Arabia Saudita e golfo emiratino. Intreccio di interessi contrastanti che hanno portato allo stato di guerra.
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Israele è la superpotenza del Medioriente. In ambito tecnologico e militare non ha rivali, come è emerso in maniera incontestabile con l'ondata di esplosioni di cercapersone, walkie-talkie e dispositivi utilizzati dai membri di Hezbollah a settembre. Le forze di intelligence del Mossad sono tra le più sofisticate al mondo, e sono state capaci di infiltrarsi anche nelle stanze decisionali dei pasdaran iraniani. Ma il più grande motivo per cui l'Iran non si azzarda ad attaccare direttamente Israele, se non tramite lanci scenografici e ampiamente telefonati di missili in quantità e in tempi prestabiliti, è un altro. Lo Stato ebraico è una potenza nucleare, con capacità di risposta nucleare. Vuol dire che è in grado di montare e lanciare testate atomiche su qualunque supporto bellico e che, anche se attaccata da Teheran nelle proprie basi terrestri, può rispondere contrattaccando col nucleare dalle navi militari che ha al largo del Mediterraneo.
L'Iran non è in grado di sostenere una guerra convenzionale, aperta e prolungata. E neanche di reagire nuclearmente, visto che i dati ci suggeriscono che l'arricchimento dell'uranio non avrebbe superato la soglia del 60%. Percentuale incompatibile coi soli fini civili dichiarati dalle autorità di Teheran, ma comunque lontana dalla soglia del 90% necessaria alla produzione della Bomba. Non a caso la Repubblica Islamica ha costruito in anni e anni la sua rete di agenti di prossimità attorno a Israele, approntando un decentramento operativo ed evitando di essere coinvolto in uno scontro diretto dalle conseguenze apocalittiche.
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Col 7 ottobre, l'Iran aveva conquistato un vantaggio tattico enorme su Israele. Era riuscito a umiliarne la tanto celebrata grandezza militare e, in seguito alla scomposta reazione sui civili di Gaza, anche a minarne l’immagine a livello internazionale. Gli oltre 41mila morti palestinesi nella Striscia, tra cui migliaia di bambini, hanno portato perfino l'Onu e altri Paesi come la Turchia a schierarsi apertamente contro la guerra israeliana, giudicata sproporzionata in relazione all'affronto subìto. L’Iran era anche convinto che tutto questo avesse convinto i Paesi arabi a non volersi più alleare con Tel Aviv, visto che non era così forte come il mondo riteneva. Non riesce neanche a sconfiggere un gruppo di terroristi in un fazzoletto di terra, figurarsi. E invece Israele ha ribaltato la situazione.
Dopo mesi bombardamenti atroci su Gaza e scontri a bassa intensità con Hezbollah e Houthi, ha deciso di accelerare lo scontro. Ha obliterato il braccio militare di Hamas, ha decimato i vertici di Hezbollah, ha risposto con forza agli Houthi e ha attaccato anche le milizie sciite in Siria. Il leader dei fondamentalisti palestinesi Ismail Haniyeh è stato ucciso a Teheran, in pieno territorio iraniano, anche se lo Stato ebraico non ha mai rivendicato ufficialmente il raid. Un messaggio chiaro contro ogni accordo sul cessate il fuoco, dato che Haniyeh era il negoziatore designato di una tregua. Il vantaggio tattico è tornato in mani israeliane, oltre a quello strategico che non era mai stato messo seriamente in discussione. Perché i Paesi arabi non hanno mai smesso di guardare a Israele come riferimento securitario e geopolitico, proprio in opposizione all'Iran.
La vera svolta tattica del conflitto si è avuta il 1° aprile di quest'anno. L'attacco israeliano al consolato iraniano a Damasco non ha soltanto determinato la morte di pasdaran di alto rango, ma ha colpito il territorio nazionale. Ha imposto la reazione, letteralmente telefonata, dell'operazione True Promise del 13 aprile con 300 droni e missili. Praticamente tutti abbattuti, come quelli lanciati il 1° ottobre nel raid chiamato di conseguenza True Promise 2. Altra mossa scenografica, necessaria per la narrazione di Teheran. Come in Ucraina dopo l'incursione nella regione russa di Kursk, anche in Medioriente la guerra era passata in un attimo da asimmetrica in diretta. Senza però l'escalation definitiva, per i motivi che abbiamo già visto.
Al netto di tutto, gli Usa non hanno però mai smesso di dialogare col grande nemico iraniano. Neanche un mese dopo l'attacco del 7 ottobre, emissari di Washington hanno incontrato ufficiosamente una delegazione di Teheran in Oman, oltre a mantenere un canale preferenziale in sede Onu. Sia gli Stati Uniti sia l'Iran stanno vivendo un momento di profonda stanchezza imperiale, in cui ampie porzioni di giovani si oppongono al governo e alle classi dirigenti. Non perdonano ad autorità e apparati la sovraesposizione nei teatri di conflitto e il sacrificio prolungato che chiedono alla popolazione per sostenere lo sforzo bellico. Una situazione potenzialmente esplosiva soprattutto in America, che fra meno di un mese andrà al voto per eleggere il suo prossimo presidente.
I democratici sono percepiti come i tradizionalmente più inclini ad aprire all'Iran. Agli Accordi di Oslo del 1993, Bill Clinton pronunciò la celebre espressione "Shalom, salaam, peace", mentre nel 2015 Barack Obama dedicò addirittura un video agli ayatollah per augurare un buon Nawrūz, il capodanno persiano. Lo scopo era forte e chiaro: Israele non deve attaccare l'Iran, pena il caos in Medio Oriente. Con Donald Trump l'approcciò cambiò: sanzioni economiche per impedire l'ascesa atomica iraniana e ritiro dall’accordo Jcpoa sul nucleare. Oggi gli Stati Uniti tentano con estrema fatica di contenere l'intransigenza del governo Netanyahu e di disimpegnarsi dai fronti caldi. Vedremo cosa accadrà dopo l'elezione del nuovo presidente.
Dall'altro lato della barricata, Israele vuole diventare Grande. Letteralmente, come la fazione più estremista del governo Netanyahu, e lo stesso premier, ribadiscono a ogni occasione. "Israele è uno dei Paesi più piccoli del mondo. Si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Quando Hamas dice di voler liberare la Palestina, intende distruggere Israele". In queste due brevi frasi è racchiuso il senso violento del progetto israeliano: controllare l'intera fascia di territorio compresa fra il mare e la Valle del Giordano. Inclusi i territori palestinesi di Gaza e Cisgiordania, dunque. Lo Stato ebraico, ha dichiarato Netanyahu, è "lungo e stretto nella forma, si estende per 470 chilometri ed è largo 135. L'area totale nazionale, incluse Giudea e Samaria (cioè West Bank, la Cisgiordania) e le Alture del Golan, è di 22.145 chilometri quadrati". Con questo discorso, il primo ministro ha lanciato un messaggio incontrovertibile che conferma la definitiva morte della soluzione a due Stati: Israele afferma la propria sovranità su territori assegnati ai palestinesi dalle Nazioni Unite. "From River to the Sea", dal fiume al mare.
Mai espressione fu più azzeccata di quella di Papa Francesco sulla terza guerra mondiale a pezzi. Allo stato attuale, la Russia invia armi all'Iran mentre Israele si prepara per una grande offensiva alla quale gli Usa si oppongono fermamente. Questa faglia è un altro regalo a Mosca, poiché indebolisce la relazione tra Washington e Tel Aviv, unico grande argine agli interessi del Cremlino in Medioriente. Da parte sua, Teheran è diffidente nei confronti di una relazione eterna con Mosca, cooperante in ottica anti-statunitense, ma in caso di guerra aperta tale legame si cementerebbe. Questo è il legame geopolitico tra la guerra in Ucraina e quella mediorientale. Gli Stati Uniti potrebbero ritrovarsi a combattere una guerra contro l'Iran nel peggior momento possibile. Ma il dominio russo sul Caucaso e l'Iran come "alleato" compenserebbero il sostanziale insuccesso in Ucraina. Ciò renderebbe la Russia una potenza a due passi da Israele e metterebbe gli Usa nella posizione di abbandonare il campo di battaglia (e apparire sconfitti) o di entrare in una guerra brutale e pericolosa. Tutto questo potrebbe ovviamente non verificarsi. Ma attualmente lo Stato ebraico fa sempre più fatica a trattenersi, gli Usa navigano a vista aspettando le presidenziali di novembre, la Russia ha bisogno di una vittoria dentro o fuori l'Ucraina e l'Iran vuole risorgere come grande impero. Il deflagrare del fronte mediorientale potrebbe cambiare le sorti anche di quello più a nord, convincendo del tutto Washington a chiudere i conti con la questione russo-ucraina. In tal caso, i negoziati sarebbero organizzati rapidamente, con Mosca che avrà in mano un ulteriore vantaggio legato alla sua arma più efficace finora: il tempo.
Da settimane si paventa un attacco diretto contro Israele in occasione dell'anniversario del 7 ottobre. E viceversa, da Israele contro l'Iran. Possibile, certo. Sempre tenendo presente che l'Iran al momento non andrà oltre le azioni dimostrative. L'unico grande attore che deve ancora scatenare tutto il suo potenziale bellico contro lo Stato ebraico è Hezbollah. L'invasione del Libano si tramuterebbe però in un disastro per Israele, e non a caso è stata condotta un'incursione di pochi chilometri per creare una "zona morta" nei pressi della Linea Blu di demarcazione tra i due Paesi. Inoltre Israele deve ancora scatenarsi in Cisgiordania, dove sono stati inviati migliaia di coloni armati e con licenza di lottare contro i palestinesi che lì risiedono.
Le ostilità potrebbero estendersi anche alla Siria, dove al fianco dell’Iran e del regime di Assad agiscono anche i russi. Dal canto suo, l’Iran vuole proseguire nel solco di quella che è stata definita "pazienza strategica", preferendo uno scontro a bassa intensità che mantenga costante la pressione sul nemico mentre auspica che gli Usa riescano a calmare Netanyahu. Intanto prosegue il dramma umano di migliaia di famiglie spezzate, di vite troncate da una bomba, di paura per ciò che potrà cadere dal cielo, di apocalisse, di sfiducia nel futuro. Un 7 ottobre lungo un anno. E che continuerà ancora a lungo.