RISIKO MEDIORIENTALE

Israele contro Iran, chi sta con chi: il gioco di alleanze e interessi in Medioriente (e Asia)

Nessuno sembra volere l'escalation, ma tutti di fatto la sfiorano. Lo Stato ebraico è invischiato nella guerra di Gaza e Teheran ha tutto l'interesse a non allargare il conflitto. Gli Usa sono stanchi, mentre Cina e Russia si muovono con la galassia "-stan" in Asia Centrale. Il ruolo della Turchia e dei Paesi arabi nel risiko mediorientale

di Maurizio Perriello
20 Apr 2024 - 13:13
 © Afp

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Gli attacchi erano telefonati, ma ci sono stati. L'Iran ha avvisato per tempo Israele e Stati Uniti delle centinaia di droni e missili lanciati tra 13 e 14 aprile contro lo Stato ebraico, con tanto di conto alla rovescia durato ore e mirando a zone non densamente popolate. Sette feriti e qualche danno. Questo perché Teheran, come Washington, non vuole l'escalation e la guerra aperta con lo Stato ebraico, grande potenza regionale dotata di arma nucleare. Ma di fatto l'escalation l'ha sfiorata, mostrando i muscoli per rispondere al raid israeliano che il 1° aprile a Damasco ha colpito una sede consolare iraniana e ucciso alti ufficiali dei Pasdaran. Forse compiendo, l'Iran come Israele, le prove generali per un attacco totale futuro. Poi è toccato nuovamente a Israele replicare alla Repubblica Islamica, tuttavia contrattaccando in maniera apparentemente "moscia", come affermato dall'esponente dell'ultradestra israeliana al governo Ben Gvir. Segno che anche Tel Aviv ha interesse a rinviare l'escalation, come dimostra il fatto di aver avvisato preventivamente gli americani tramite la Svizzera garantendo che non avrebbe colpito i siti nucleari iraniani. Tra timori e rappresaglie, una cosa però appare certa: al di là delle conseguenze militari che potranno scaturire, l'attacco iraniano ha reso più chiaro e manifesto il gioco di alleanze e interessi tra i vari attori del Medioriente. Allargando il quadro anche al resto d'Asia.

© Tgcom24

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In un certo senso, si può dire che per Israele il fallito attacco iraniano abbia rappresentato un vantaggio, se non proprio "una vittoria" come ha affermato Joe Biden. Innanzitutto perché ha risollevato - almeno in parte - l'immagine della potenza securitaria e militare dello Stato ebraico e la sua deterrenza anti-iraniana, molto compromessa dal maxi attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. L'Iron Dome, assieme ai jet occidentali (di Usa, Gran Bretagna e Francia), ha respinto efficacemente il 99% dei vettori di Teheran, col restante 1% che - secondo gli iraniani - avrebbe colpito "duramente" una base area nel Negev. Ma, soprattutto, il successo della difesa antiaerea è stato ottenuto anche grazie al contributo dei Paesi arabi, primo fra tutti la Giordania, che sono intervenuti nonostante la questione palestinese e la tragedia dei civili di Gaza. Si tratta di un aspetto della vicenda tutt'altro che scontato e secondario, perché potrebbe contribuire a "calmare" la volontà di risposta israeliana (che pure c'è stata) contro l'Iran, grande nemico anche delle monarchie arabe oltre che degli Stati Uniti. Tuttavia Washington ha ripetuto in tutte le salse che non parteciperà ad alcuna reazione israeliana contro Teheran, dissociandosi fortemente nel caso dei tre droni che hanno colpito una base aerea militare nei pressi di Esfahan.

La stanchezza degli Usa e la crisi della globalizzazione

 Il primo elemento da considerare è proprio quello americano. Perché, anche se lontana geograficamente, l'America è ancora l'egemone globale e il partner di maggioranza al quale Israele deve dare conto. Sono mesi ormai che gli Usa tentano di placare l'instransigenza israeliana nella risposta a Hamas su Gaza. E ora dovranno faticare il doppio per scongiurare anche la guerra aperta con l'Iran. Invischiati in una profonda crisi interna e in una fase di stanchezza imperiale, gli Stati Uniti non sembrano più in grado di gestire la globalizzazione, che non rappresenta altro che il controllo delle rotte marittime e, dunque, dei colli di bottiglia o "choke point". Due di questi, lo Stretto di Bab el-Mandeb e lo Stretto di Hormuz, sono messi in crisi dalle azioni dell'Iran e del suo "cliente" sciita in Yemen, il gruppo Houthi. Il commercio globale ne ha già risentito, imponendo alle navi cargo di diverse compagnie di circumnavigare l'Africa per giungere in Europa e, in alcuni casi, di sospendere i viaggi. L'Iran ha voluto colpire l'economicismo col quale gli Usa controllano le proprie province europee, ben consapevole che gli imperi vivono di tutt'altro. Come potenza e status, ad esempio, anche se può sembrarci fuori dal mondo. Resta comunque il fatto che gli Usa hanno basi militare sparse per il Medioriente e la V Flotta presente nel Golfo Persico e oltre.

Chi sono gli alleati di Israele

 Il caso della Giordania, Paese a maggioranza sunnita, è forse il più interessante. Il regno hashemita esiste per volontà di Israele, che lo tiene in vita e lo protegge ma che vorrebbe inglobarlo nel disegno finale di un grande Stato ebraico. Rivali per antonomasia, giordani e israeliani non si amano dunque ma collaborano in materia di sicurezza. Amman funge praticamente da poliziotto della frontiera orientale israeliana e oggi rappresenta uno dei più importanti alleati degli Stati Uniti nell'area, per i quali ospita basi militari (oltre a quelle francesi), perché funge da testa di ponte verso l'Iran e i suoi alleati in Iraq e Siria. Senza ammetterlo ufficialmente, anche l'Arabia Saudita ha partecipato alla difesa di Israele dai droni iraniani, utilizzando caccia di ultima generazione (F-35) di produzione americana nei cieli di Siria e Iraq. Attenzione però: è stata una partecipazione dimostrativa più che necessaria. Non si pensi che siano i sauditi a proteggere gli israeliani, perché è vero esattamente il contrario, come abbiamo accennato. L'Arabia non sa fare la guerra, come ha dimostrato il clamoroso insuccesso in Yemen proprio contro gli Houthi filo-iraniani, è si affida a Israele contro la minaccia dell'Iran tramite quei celebri Accordi di Abramo che spesso si tirano in ballo. Il ruolo geopolitico saudita è altresì centrale per Tel Aviv anche come partner commerciale e tecnologico, oltre che nella fornitura di aiuti ai civili palestinesi. Che in questo modo si vorrebbero "sedati", per intenderci. Gli Emirati Arabi Uniti, dal canto loro, hanno invece negato ogni partecipazione diretta alle intercettazioni di droni e missili di Teheran, smentendo la notizia pubblicata dai media americani secondo cui Abu Dhabi avrebbe condiviso con gli occidentali informazioni sull’attacco iraniano. Però restano uno dei partner strategici citati negli Accordi di Abramo con cui Israele e Usa vogliono la normalizzazione. Sul Golfo si affaccia inoltre il Qatar, la "potenza neutrale" dell'area che ospita negoziati e funge da hub finanziario occulto per chiunque voglia fare affari con Doha, a prescindere dalla confessione. L'Egitto, poi, è alleato di Israele nel contenimento di Hamas e degli altri fondamentalisti sul confine sud. Nel risiko mediorientale si posiziona infine un po' ai margini la Siria squassata dalla guerra, la cui debolezza non vale per Israele uno schieramento di truppe in atteggiamento offensivo al confine. Almeno per il momento.

Chi sono i nemici di Israele

 Il grande nemico di Israele è ovviamente l'Iran, grande potenza imperiale che mira all'egemonia regionale, ma che al contempo è anche vitale per mantenere il precario equilibrio mediorientale. Senza l'Iran, Israele perderebbe infatti la sua missione securitaria: Teheran è la minaccia dalla quale difendere i Paesi arabi e gli alleati nell'area. Specchio riflesso: senza Israele, l'Iran non avrebbe il nemico mortale contro il quale unire le formazioni sciite ed espandere così la propria influenza nel mondo arabo-mediterraneo. Per milizie sciite intendiamo dunque i nemici pratici dello Stato ebraico, membri di quella Mezzaluna o Asse della Resistenza foraggiata da Teheran. Innanzitutto Hezbollah, che ha a disposizione oltre 130mila missili e detiene l’esercito più potente e addestrato contro cui Israele deve ancora scontrarsi. E poi Hamas, oggi nemico mortale di Tel Aviv ma fino a ieri alleato nella gestione della Striscia di Gaza. Ci sono anche gli Houthi, egemoni in gran parte dello Yemen e autentico baluardo sciita per minacciare il Mar Rosso e lo Stretto di Bab el-Mandeb e quindi la globalizzazione americana, intesa come il controllo dei colli di bottiglia marittimi. Non bisogna dimenticare poi l'Anp, l'Autorità nazionale palestinese finanziata per sedare i palestinesi in Cisgiordania, ma che versa in una profonda crisi dalla quale difficilmente si risolleverà. Nella sfera d'influenza dell'Iran vanno inseriti anche larghe porzioni di Siria e Iraq, al netto dei separatismi interni (curdi, arabi, azeri, baluci). Oltre al Qatar, sul Golfo si affacciano infine altri due Paesi "ambigui": l'Oman e il Kuwait.

Il caso "ambiguo" della Turchia

 Il conflitto largo tra Israele e Iran si dipanerà nei prossimi anni, coinvolgendo ancora di più un Paese che al momento si muove con calcolata ambiguità tra Nato, mondo musulmano e coalizione anti-occidentale: la Turchia. Per dire: uno degli obiettivi strategici degli Usa in Medioriente è contenere la proiezione della potenza turca in Siria e nel Mar Egeo. Sì, perché quello guidato da Erdogan è un impero e si è dotato di una missione panislamista, che vuole cioè parlare da guida a tutti i musulmani, concorrendo direttamente con il nemico Iran su questo campo. La doppiezza della narrazione ha spinto però la Turchia addirittura a difendere retoricamente Teheran nel caso dell'attacco israeliano a Damasco, ovviamente non per solidarietà ma per andare contro lo Stato ebraico, potenza regionale che anche Ankara vuole indebolire per i propri interessi. Stato ebraico che, alla fine della fiera, la Turchia sostiene dal punto di vista militare e di intelligence in Iraq e nel Caucaso. In definitiva, l'ex potenza ottomana cura i propri interessi prima di quelli degli schieramenti internazionali in cui è inserita e, con ogni probabilità, nei prossimi anni si inserirà con maggiore forza nello scontro tra Israele e Iran.

Iran, Russia e Cina: la rete (asiatica) degli imperi contro l'Occidente

 E Cina e Russia? Come si inseriscono in questo gioco delle parti? Il crescente mercato asiatico ha spinto la nascita di alleanze regionali per dominare i corridoi commerciali emergenti, attraverso una sorta di controglobalizzazione via terra. Teheran si presenta come il cuore di queste relazioni, crocevia che raccoglie le linee che provengono dall'Asia Centrale e dalla Cina e le smistano a nord verso la Russia e la Turchia, e poi i Balcani e l'Europa, e sud verso l'Oceano Indiano e l'India. Dall'Iran si diramano i fili verso la Cina attraverso Almaty (Kazakistan), Tashkent (Uzbekistan), Ashgabat (Turkmenistan), e poi verso Baku (Azerbaigian), Astrakhan e poi Mosca (Russia), Bassora (Iraq), Ankara e Istanbul (Turchia). Uno di questi grandi centri, Ashgabat, rappresenta inoltre il centro di un grande accordo che coinvolge i Paesi asiatici centrali, assieme a Pakistan e India e ovviamente Iran. Si tratta di un progetto di trasporto multimodale che riscrive il mercato del gas e degli idrocarburi dell'intera Eurasia, cioè della parte di mondo più strategica e importante del pianeta, che non a caso gli Usa si sono impegnati a controllare tramite un equilibrio di potenza, senza far emergere cioè un Paese dominante. L'intesa siglata nel 2021 da Azerbaigian e Turkmenistan per il giacimento conteso nel Mar Caspio porterà il gas verso la Turchia attraverso l'Iran, cementando i legami tra tutti questi Stati. Parallelamente Teheran ha fatto fruttare l'accordo commerciale preferenziale con l'Unione economica eurasiatica e sta stringendo relazioni commerciali e infrastrutturali sempre più forti con Mosca: al di là della fornitura di droni Shahed, l'Iran sta realizzando un canale che unisca Mar Caspio e fiume Don, dunque nella zona contigua all'Ucraina occupata. La cooperazione russo-iraniana sta facendo prosperare le zone di confine grazie a cantieri e traffici di tecnologie e materie prime e armi, coi russi del Volga che si definiscono "mai così felici e ricchi" da quando l'Occidente ha imposto le sue sanzioni contro Mosca e Teheran. La lista dei porti attivi è lunga: da parte russa Makhachkala, Olya, Astrakhan, Solyanka e Lagan; da parte iraniana Astara, Anzali, Caspian, Noshahr e Amirabad. Il tutto a vantaggio anche della Cina, che mira a farsi egemone delle rotte commerciali come già sperimentato con le Nuove Vie della Seta. E che nel Caspio compie esercitazioni militari congiunte proprio con Iran e Russia. Tre imperi che non si amano, per usare un eufemismo, ma che dimostrano di sapersi alleare "in occulto" in funzione anti-americana.

Cosa vuole Israele

 Israele ha subìto una sconfitta tattica il 7 ottobre e continua a condurre una campagna militare fallimentare contro Hamas, oltre ad aver perso la guerra mediatica per la tragedia dei civili di Gaza. Benjamin Netanyahu è il mediatore intransigente e criticato tra due posizioni: gli Stati Uniti che comandano una de-escalation e l'ala più estremista e sionista del governo di destra, rappresentata da Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, che hanno come obiettivo il "grande Israele", e cioè il controllo dell'intera fascia di territorio che va dal Mediterraneo alla Valle del Giordano. C'è però un grande nemico che glielo vuole impedire: l'Iran, il quale preferisce attaccare lo Stato ebraico da territori terzi in cui possiede basi militari e di lancio, come la Siria. In questo senso si comprende meglio perché Israele abbia scelto di attaccare il 1° aprile la sede consolare iraniana a Damasco. Ciò che è certo è che Tel Aviv può ampiamente evitare la sconfitta strategica, perché gli Accordi di Abramo con Arabia Saudita ed Emirati sono ancora in piedi. Per raggiungere i suoi obiettivi, dunque, Israele non può permettersi un allargamento del conflitto con l'Iran, impegnato com'è nella guerra di Gaza tuttora in corso. Guerra dalla quale Israele ha voluto "distrarre" il mondo, in vista di un inasprimento delle operazioni militari. In questo contesto l'offensiva su Rafah, nel sud della Striscia dove sono stipati oltre un milione di civili palestinesi, sarà un punto di svolta.

Cosa vuole l'Iran

 Sul piano tattico l'Iran sta vincendo questo confronto con Israele e, per questo motivo, non ha intenzione ad allargare il conflitto. Innanzitutto perché uno dei suoi clientes, Hamas, ha attaccato durissimamente lo Stato ebraico il 7 ottobre grazie al cruciale supporto di Teheran, che ha fornito mezzi e capacità militare che i fondamentalisti della Striscia non avevano mai posseduto prima di allora. Hamas, che segue anche una sua propria agenda indipendente dalla rotta persiana, ha fiutato la debolezza interna di Tel Aviv e si è legato a doppio filo all'Iran per uno scopo comune contro il nemico comune: distruggere Israele. Non in senso materiale, che pure desidererebbe se ne avesse le capacità, ma imperiale. Distruggendo cioè gli Accordi di Abramo, voluti dagli Usa per contenere proprio l'Iran e portare avanti la normalizzazione dei rapporti tra Stato ebraico e monarchie arabe, come quella saudita. In che modo Teheran pensa di riuscirci? Facendo cadere il mito di Israele come grande potenza del Medioriente in grado di proteggere chiunque gli si affidi. Come a dire: guardate, dopo tutti questi mesi gli israeliani non riescono neanche ad averla vinta su un gruppo estremista che non è neanche uno Stato e non possiede un esercito, figurarsi se può assolvere una missione securitaria regionale. Per questo motivo Teheran preferisce lasciare Israele alle difficoltà che incontra nella guerra di Gaza. E per lo stesso motivo, oltre che perché al momento non ha i mezzi per sostenere una guerra diretta, Teheran non vuole l'escalation del conflitto con Tel Aviv, preferendo colpirlo tramite le milizie della "Mezzaluna sciita" che circondano lo Stato ebraico. Con la più forte di tutte che deve ancora scendere davvero in campo col suo potente esercito: Hezbollah.

C'è il rischio di escalation nucleare?

 Allo stato attuale, l'unico elemento che potrebbe modificare radicalmente il corso del conflitto è la bomba atomica. Israele ce l'ha, l'Iran non si sa. Non si sa perché Teheran non fa più parte dell'accordo sul nucleare del 2015 stracciato da Donald Trump e non si sente dunque obbligato a dichiarare lo stato della propria capacità nucleare. Gli ispettori dell'Aiea e le agenzie di intelligence statunitensi non sono riusciti a far luce davvero su questa capacità dell'Iran, che a giudicare dai dati non registra livelli di uranio arricchito tali da presupporre lo sviluppo della bomba. Questo è un fattore decisivo, perché di norma nessun Paese riesce a dotarsi dell'arma atomica senza che gli altri Paesi se ne accorgano mesi prima. In questo lasso di tempo questi altri Paesi si muoverebbero militarmente contro l'Iran, comprese Cina e Russia che, come tutti, non vogliono che anche Teheran si doti dell'ordigno nucleare strategico.

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