Putin in giaccone militare assiste alle esercitazioni con la Cina a Vostok
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La risposta del Cremlino alle perdite subite su suolo ucraino rischia di sconvolgere equilibri locali e globali. Col presidente russo pressato dal "partito della guerra", sul fronte interno, e dalle rimostranze dei partner internazionali, sul fronte esterno
di Maurizio Perriello© Ansa
Prima della mobilitazione parziale annunciata da Vladimir Putin in Russia, era dalla Seconda Guerra Mondiale che una grande potenza non richiamava in massa i propri cittadini al fronte. Segno dei tempi che viviamo, resi ancor più preoccupanti da precedenti terribili in terra russa come la mobilitazione parziale presto trasformata in "generale" imposta dello zar Nicola II nel 1914 contro l'Austria-Ungheria. La decisione del Cremlino è innanzitutto il tentativo di reagire alla batosta militare accusata con la controffensiva ucraina, anche attraverso l'annuncio dei referendum per l'annessione nelle Repubbliche autoproclamate di Donetsk e Lugansk e nelle regioni di Kherson e Zaporizhzhia, occupate e controllate solo in parte dall'esercito russo. Un'urgenza che tradisce un malcontento crescente sul fronte interno nei confronti dell'operato del presidente, incluso il cosiddetto "partito della guerra".
Dopo aver promosso il reclutamento finanche fra i detenuti e i prigionieri di guerra ucraini, Putin ha dunque impresso una decisiva svolta all'operazione militare speciale in Ucraina. E ora è praticamente obbligato a proseguire sulla via della forza militare, con tutti i rischi e i timori nucleari che ne conseguono. E innescando un effetto domino che può ridisegnare gli equilibri geopolitici globali, con le prime tessere di Cina e Turchia già pronte a cadere e a cambiare il loro atteggiamento nei confronti della Russia.
La mobilitazione parziale disposta (su cui gli esperti nutrono dubbi, ci vorranno mesi per applicarla) con apposito decreto da Mosca dovrebbe portare 300mila riservisti sul campo di battaglia ucraino. Il tutto però gradualmente, previo addestramento e "a seconda delle necessità", come ha specificato il ministro della Difesa Sergei Shoigu. Una mossa che riguarda poco più dell'1% della risorsa totale di mobilitazione e comprende coloro che hanno prestato servizio nell'esercito o che hanno esperienza di combattimento e specialità militari. La mobilitazione parziale si differenzia di molto da quella generale, che invece interesserebbe la totalità degli uomini in età militare, fra i 18 e i 65 anni, che di colpo diventerebbero arruolabili per combattere in terra ucraina. Questa via è stata invece percorsa dall'Ucraina, che già il 25 febbraio aveva emanato un decreto per la mobilitazione generale: tutti i cittadini in età da combattimento, tra i 18 e i 60 anni, non potevano più lasciare il Paese e dovevano mettersi a disposizione per combattere.
A spingere il presidente russo a questo passo è stato però il cosiddetto "partito della guerra", da settimane in pressione su Putin per sovvertire le sorti, giudicate prima incerte e ora disastrose, dell'operazione militare speciale. Putin vede dunque la sua leadership "dimezzarsi" su due fronti, quello militare e quello interno degli apparati russi. A cominciare da quei siloviki che siedono (quasi tutti) nel Consiglio di sicurezza e che controllano la politica estera e interna della Federazione. Oltre a Vladimir Putin (presidente) e Dmitry Medvedev (vicepresidente), la piramide del Consiglio di sicurezza comprende anche il "nuovo falco" Nikolaj Patrushev (segretario). Gli "uomini forti" siloviki comprendono poi anche i vertici dell'intelligence: il direttore del Servizio di sicurezza (Fsb) Aleksandr Bortnikov, quello dell'intelligence estera (Svr) Sergei Nariskin e quello dell'intelligence militare (Gru) Igor Kostjukov. Oltre a Putin, gli altri due detentori della valigetta nucleare sono il ministro della Difesa, Sergei Shoigu, e il Capo di Stato Maggiore, Valerij Gerasimov. Il partito della guerra annovera infine anche i tecnocrati, dalla governatrice della Banca Centrale Nabiullina al primo ministro Mikhail Misustin, gli oligarchi di Stato, come il capo di Gazprom Aleksej Miller, e i capi militari veri e propri.
Oltre che su quello militare in Ucraina, la Russia appare in difficoltà anche su altri fronti esteri, nell'ambito delle relazioni internazionali. Nonostante la schiera di "partner" sia nutrita dal punto di vista economico e commerciale, Mosca appare sempre più isolata nella sua iniziativa bellica. I Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), ad esempio, sembrano unicamente intenzionati ad acquistare gas e petrolio a prezzi stracciati invece di sostenere Putin. Il vertice a Samarcanda della Sco (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai) ha rivelato poi il raffreddamento dei rapporti coi due maggiori partner "nascosti" della Russia: Cina e Turchia. Dopo mesi di "equilibrismo", in cui non condannavano né approvavano apertamente il conflitto, il presidente Xi Jinping non ha celato la sua irritazione, mentre Erdogan è arrivato addirittura a suggerire la restituzione della Crimea all'Ucraina. Non è stato da meno neanche il premier indiano Narendra Modi, secondo il quale "non sono tempi per fare guerre". Nel sistema vanno inserite anche le variabili legato al Csto, l'alleanza militare con alcune delle Repubbliche ex-sovietiche. Il ritiro parziale delle truppe russe dislocate sui fronti dell'Asia Centrale, per rinforzare il contingente in Ucraina, ha acceso la miccia delle dispute locali, come testimoniano gli scontri al confine tra Armenia e Azerbaigian e tra Tagikistan e Kirghizistan.
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La rinnovata volontà russa di continuare la guerra isolerà ulteriormente il Cremlino? Al momento la Federazione riceve aiuti dalla Siria, dall'Iran e dalla Corea del Nord (con quest'ultima che nega), rispettivamente nella forma di volontari, di droni e di munizionamento d'artiglieria. Ha anche riscosso il sostegno diplomatico della Giunta Militare del Mali, e "a parole" anche da Cuba, Nicaragua e Venezuela, che però nel frattempo cercano di riaprire i canali diplomatici con gli Stati Uniti.
Tra i leader militari attivi sul campo in Ucraina spiccano l'ormai celebre ceceno Ramzan Kadyrov e Evgenij Prigozhin, ritenuto il capo del Gruppo Wagner, a formazione paramilitare di mercenari de facto alle dipendenze del presidente Putin, che ha subito gravi defezioni (intorno al 40%) negli scontri armati. Prigozhin è però conosciuto ufficialmente come "lo chef di Putin", per via delle sue attività nel campo della ristorazione, e ha sempre negato il suo coinvolgimento nel Wagner. La sua figura è molto ben voluta nella Russia profonda, quella che approva il conflitto, tanto che molti lo vorrebbero ministro della Difesa al posto di Shoigu, giudicato responsabile della sconfitta russa a Kharkiv. O addirittura a capo dell'intera operazione militare in Ucraina, come riferisce l'Institute for the Study of War. Gli uomini di Prigozhin, definiti "wagneriti", rivestono già un'importanza maggiore rispetto ai miliziani del Donbass e persino rispetto ai regolari dell'esercito. I mercenari sono infatti autorizzati a prelevare tutto ciò di cui hanno bisogno sul fronte di guerra e conservano una notevole autonomia d'intervento. Le truppe agli ordini di Kadyrov, chiamati kadyrovcy, si occupano invece principalmente del "lavoro sporco" in territorio ucraino, essendo fanterie specializzate nel combattimento casa per casa nei centri abitati.
Quello che era chiaro prima, e che la mobilitazione ha confermato, è che la Russia è a corto di soldati al fronte. La linea difensiva russa si è trovata schiacciata sia a est sia a sud, perdendo centinaia di uomini (molto più del previsto) e con l'artiglieria che, nell'area di Kherson, ha perso fino al 60% della propria efficacia di combattimento in termini di soldati e mezzi (gas, petrolio, grano, armi: quanto valgono gli assi nella manica di Putin). Grazie alle tecnologie e all'intelligence occidentali, nei mesi scorsi gli ucraini sono riusciti inoltre a uccidere un numero inedito di generali russi, mandando nel caos la catena di comando delle Forze moscovite. A tutto questo si aggiunge il crescente numero di disertori, coi russi addirittura costretti a usare elicotteri per cercare i fuggitivi e, sotto minaccia delle armi, riportarli nelle zone dei combattimenti. Chi getta il fucile per terra si dirige soprattutto in autobus attraverso Kalančak verso la Crimea. Dall'altra parte, l'esercito ucraino ha minacciato le roccaforti nel Donbass e attaccato direttamente il territorio russo a Belgorod e Rostov.
Due parole sulla Cina sono doverose. Xi Jinping è agli ultimi ostacoli della corsa a perdifiato, cominciata mesi fa, che lo porterà al Congresso del Partito Comunista Cinese del 16 ottobre in cui dovrebbe ricevere uno storico terzo mandato come presidente. Due tra le barriere più ostiche da saltare se le è lasciate alla spalle, ma dovrà rifarci i conti (le periferie ribelli di Hong Kong e dello Xinjiang), mentre un'altra rappresenta una vera e propria scalata: l'amicizia con la Russia. Lo scoppio della guerra in Ucraina ha alimentato il dibattito interno sulla convenienza del rapporto con la Russia, visto lo stallo dei flussi economici lungo le Vie della Seta e il danneggiamento dell'immagine di Pechino in Europa, per non parlare dell'alta tensione con gli Stati Uniti sul dossier Taiwan.