IL MOTTO DEL TYCOON

"Maga", il mantra di Trump: cosa vuol dire (davvero) "Make America Great Again"

Il motto del presidente eletto è diventato un autentico movimento politico fortemente nazionalista. Politica estera aggressiva, protezionismo economico, opposizione al movimento "woke": ecco cos'è il "Maga"

di Maurizio Perriello
18 Gen 2025 - 06:22
 © Ansa

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"Rendiamo l'America di nuovo grande". Letteralmente vuol dire questo "Make America Great Again", accorciato nell'acronimo Maga e ormai famoso in tutto il mondo per essere il motto di Donald Trump. Milioni di cappellini e di magliette, cartelloni e gadget, titoli di giornali e trasmissioni TV, perfino menzioni in documenti ufficiali dell'amministrazione federale. Il mantra del presidente eletto ha letteralmente invaso l'America ma non è solo uno slogan, non è solo marketing. È una strategia di gestione della prima potenza del pianeta. Un vero e proprio movimento politico nazionalista, che ha preso forma e coscienza di sé durante la campagna elettorale di Trump del 2016. E che il repubblicano ha rilanciato e cavalcherà in vista del suo secondo insediamento alla Casa Bianca.

Chi ha inventato e come è nato il Maga

 Non è stato però Donald Trump a inventare il Maga. Negli Stati Uniti è una di quelle frasi che da generazioni si sente pronunciare in strada, al bar, in famiglia. A riconoscerne per primo il potenziale politico fu il presidente Ronald Reagan, che nel 1980 arrivò alla Casa Bianca cavalcando il motto "Let's make America great again". Lo slogan fu poi ripreso non da un altro candidato repubblicano, ma dal democratico Bill Clinton, nel 1992. E rimase "in famiglia", utilizzato da Hillary Clinton durante la campagna presidenziale del 2008.

Marchio registrato da Trump per 325 dollari

 Il motto tornò poi "a casa" quando Trump decise di scendere in politica, nel 2012. Lo strapotere dei democratici al Congresso era ampio e il tycoon fiutò la via per ritrovare la fiducia dell'America profonda e rilanciare la causa repubblicana. Decise quindi di puntare tutto sullo slogan "Make America Great Again", abbandonando per sempre il "let's" iniziale che usava il suo predecessore Reagan e non giudicando efficace il più lungo "We will make America great again". Addirittura Trump diede mandato ai suoi avvocati di registrarne il marchio, per poter utilizzare il Maga soltanto lui. Al modico prezzo di registrazione di 325 dollari presso l'Ufficio Brevetti.

Qual è il messaggio di "Make America Great Again"

 Trump dimostrò un grande intuito politico decidendo di puntare tutto su questo slogan. Mentre il resto del suo partito credeva di dover "ingentilirsi" e limare gli estremismi per uscire dalla crisi elettorale e giocarsela coi democratici, il tycoon scelse di strizzare l'occhio alla rabbia sociale degli americani profondi e della classe operaia bianca. Vale a dire di quella maggioranza di cittadini statunitensi che non finisce nelle serie televisive, diversissima dagli abitanti delle coste e delle grandi metropoli oceaniche, nostalgica e isolazionista, stanca di fare sacrifici per le troppe guerre in giro per il mondo, arrabbiata per l'immigrazione da sud e per la disoccupazione, refrattaria alla diversità sessuale e religiosa, che conosce tutti i vicini di casa e che possiede armi da fuoco. Il riferimento a un passato in cui gli Usa erano "grandi" si è dimostrato trasversale, perché ognuno può leggerci ciò che vuole, ogni americano può vedere legittimata la propria avversione verso ciò che secondo lui non andava nel Paese. I nonni e i padri delle nuove generazioni hanno potuto dare un riferimento politico ai loro racconti a nipoti e figli, dare fondamento alla loro sensazione di "rammollimento" della nazione.

America First

 Oltre a Maga, Trump e soci utilizzano da anni anche un'altra espressione ormai celebre in tutto il mondo: "America First". Molti si sono interrogati sulla differenza tra i due slogan, ammesso che ci sia. Potremmo dire che "America First" rappresenta la materializzazione del principio "Make America Great Again", cioè le politiche concrete che la squadra di Trump vuole mettere in campo. Protezionismo economico, una certa ortodossia religiosa, contrasto feroce dell'immigrazione. Insomma, la difesa dura e pure dei valori tradizionali americani, qualunque cosa voglia dire. Un esempio di politica da "America First" durante la prima presidenza Trump è il Muslim Ban, controverso decreto che imponeva il bando sui viaggi negli Usa di persone provenienti da una lista di Paesi a maggioranza musulmana. Un altro esempio, il più recente, è l'annuncio di conquista e annessione di Groenlandia, Canada e Panama.

Le teorie del complotto e media nel mirino

 È chiaro che una simile propaganda dà adito a linguaggi e atteggiamenti discriminatori, fino a clamorosi atti di violenza pubblica come l'assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. La retorica trumpiana ha alimentato tutta una serie di teorie cospirative, secondo cui i media nazionali nascondessero la verità sulla condizione economica, sui soldati inviati oltreoceano (una condizione molto sentita anche nella cultura pop, come la musica country) e sui dossier più disparati, dai vaccini alla teoria gender. Un esempio su tutti: la teoria della sostituzione, secondo la quale i democratici progettavano di sostituire la popolazione bianca americana con immigrati non bianchi.

La costruzione del nemico

 Per essere davvero efficace, una dottrina politica di questo tipo ha bisogno di canalizzare l'ostilità verso un nemico comune. Trump ha fatto di più: ne ha "creato" uno interno e uno esterno agli Usa. Il tycoon sa bene che gli Usa sono un Paese multietnico, ma monoculturale. Nelle chiese accanto all'altare si trova sempre una bandiera degli Stati Uniti e in ogni ambito deve prevalere l’interesse nazionale. Mosca, Pechino e Teheran sono i grandi rivali esterni, sui quali dire peste e corna ma coi quali si deve agire per via diplomatica e non militare. E infatti in Ucraina a combattere non vanno cittadini americani, o almeno non ufficialmente. La guerra commerciale con la Cina, in particolare, unisce tutto il popolo nazionalista a stelle e strisce che vede nella "concorrenza sleale" della Repubblica Popolare una scusa per arricchirsi e minacciare un domani gli Usa con rinnovata forza. Sul fronte interno, il vero nemico è invece il movimento "woke", che rischia di "togliere dalla storia" la gioventù americana. La condanna del passato, la galassia Lgbtq+, la sollevazione delle minoranze, le rivolte giovanili minacciano la restaurazione della grandezza americana, secondo Trump.

La figura e l'esempio di Trump, "uno di noi"

 L'altra chiave del grande successo del Maga e di Donald Trump è data dalla capacità del tycoon di apparire agli americani profondi come "uno di loro". Niente di più falso, visto che Trump è un grande uomo d'affari di New York, lontanissimo geograficamente e socialmente dai suoi elettori più scalmanati. Ma sta proprio qui la bravura del repubblicano. La sua abitudine di offendere e insultare gli avversari, di utilizzare espressioni che qualunque americano medio userebbe in contesti privati lo ha avvicinato alle classi medio-basse. L'effetto è calcolato: l'elettore è portato a pensare "Trump parla come me, è un americano vero, non un politico corrotto come gli altri". Il suo background da businessman è paradossalmente un vantaggio. Anche se dovrebbe allontanarlo dalla platea di elettori in bolletta e disoccupati, il successo e la competenza di Trump in materia di economia sono visti come una garanzia per il futuro. L'americano medio è portato a pensare che con Trump l'aiuto ai Paesi in guerra diminuirà, le esportazioni e la produzione nazionale aumenteranno e ci sarà lavoro per tutti.

I limiti concreti del Maga

 Gli Stati Uniti sono già grandi, molto più degli Anni Ottanta in cui fu inventata la prima versione "Make America Great Again". Oggi l'America controlla i mari, cioè i colli di bottiglia attraverso i quali transita l'80% del commercio mondiale. La globalizzazione non è nient'altro che questo. La potenza statunitense, dispiegata con navi e basi militari intorno e nello Stretto di Formosa, è tale che la Cina non può uscire in mare aperto per riprendersi Taiwan, distante qualche chilometro dalla costa. Gli Usa sono però anche in un momento di profonda stanchezza imperiale, indeboliti dai troppi fronti aperti e da una situazione interna mai così frammentata nella storia recente. Già nel 2016 Trump propose la sua ricetta di "chiusura dell'impero", ma invano. Gli apparati statunitensi, dal Congresso al Pentagono, sono i veri artefici della politica nazionale. E non vogliono, non possono smettere di essere una potenza imperiale. Per restare tale, gli Usa devono restare i compratori di ultima istanza, cioè devono importare in maniera massiccia e bloccare esportazione e di conseguenza industria e produzione interne. Sembra un controsenso, ma è così dai tempi dell'Impero Romano, passando poi per quello britannico fino all'egemonia americana fondata sulla sola esportazione della democrazia e dei diritti universali. Anche la retorica sulla chiusura all'immigrazione, fondamentale per fornire braccia a esercito e aziende, risulta vuota. Per fare "grande" l'America, Trump non può chiuderla al mondo e non può spingerla alla conquista violenta. E non lo farà, nonostante i proclami.

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