L'impegno per la pace dichiarato oggi da personalità italiane ci riporta al tempo in cui l'italiano (veneziano) fu usato come lingua comune per un accordo di pace coi turchi, che consegnò la Crimea a Mosca
di Maurizio Perriello© IPA
L'impegno dichiarato per la pace tra Ucraina e Russia espresso da alcune personalità italiane, come l'artista Jorit alla corte di Putin e il cantante e showman Pupo volato a Mosca "per dare il suo contributo", fa tornare il pensiero a quando l'italiano, inteso come lingua, fu al centro di una svolta epocale per la Russia della zarina Caterina II. E anche per l'Impero Ottomano, che nel 1774 firmò la pace con Mosca al termine di anni di guerra per le terre di confine sul Mar Nero, da Kherson alla Crimea. Le stesse dove oggi infuria il conflitto d'Ucraina. Il Trattato di Küçük Kaynarca fu redatto in triplice copia ufficiale: in lingua turca e russa, ovviamente, ma in primis in italiano o, meglio, veneziano, scelto come lingua diplomatica comune.
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Fin dal tardo Medioevo e per tutta l'Età moderna, il volgare italiano nella sua forma parlata e scritta nella Repubblica di Venezia si era diffuso nel Levante e fu utilizzato come "lingua franca" all'interno dell'Impero Ottomano per comunicare con i popoli dell'Occidente europeo. Più in generale, l'italiano veniva utilizzato per stringere accordi commerciali e redigere atti burocratici in diverse aree del bacino del Mediterraneo. Innanzitutto perché era supportato da una letteratura che lo aveva in qualche modo codificato e "istituzionalizzato" come lingua, ma soprattutto perché nelle terre greche dominate dagli ottomani il veneziano era una lingua molto conosciuta. "Merito" della conquista delle isole greche, da Corfù a Cipro, da parte della Serenissima e dell'incessante attività dei mercanti italiani. Uno strumento linguistico "leggero", non imposto però da uno Stato per influenza o violenza politico-militare, ma quasi per "inerzia". Ce ne dà una testimonianza, sul finire del Cinquecento, l'umanista Girolamo Muzio nel suo Battaglie per diffesa dell'italica lingua: "Andate alla Corte del Signor de' Turchi, ritrovate chi sappia Latino: ritrovatene appresso il Re di Tunisi, nel regno del Garbo, di Algier, et in altri luoghi; la nostra lingua ritrovarete voi per tutto".
Tra Quattrocento e Cinquecento la Sublime Porta, cioè il governo ottomano simboleggiato dall'ingresso del Palazzo di Topkapı a Istanbul, aveva ereditato il greco come lingua ufficiale del nuovo Impero fondato dalla dinastia ottomana. Ma l'antica potenza grecofona, quello che chiamiamo l'Impero Bizantino ma che altro non era che l'Impero Romano d'Oriente, era caduta. Alla neonata potenza serviva una lingua diplomatica ufficiale. La complessità della lingua e la scarsità in Occidente di interpreti della dhimotikí (il greco demotico, popolare) spinse le autorità turche e gli scrivani greci a usare per le comunicazioni istituzionali l'altra lingua che conoscevano meglio: il veneziano. Lingua che venne dunque utilizzata dalle cancellerie consolari per trattati internazionali, lettere ufficiali e capitolazioni, ma anche per pratiche commerciali come salvacondotti, polizze di carico e ricevute di pagamenti di dazi. Perfino per gli atti di giustizia ordinaria come obbligazioni, protesti, procure e testamenti. L'ambasciatore veneziano a Costantinopoli è l'unico legato regolare tra quelli delle potenze cristiane, che inizialmente non volevano lasciare stabilmente diplomatici alla corte del Sultano. In questo senso contribuirono molto alla diffusione dell'italiano come "lingua diplomatica ufficiale" i cosiddetti dragomanni, gli interpreti ottomani istituiti dal Sultano nel primo Cinquecento, arruolati anche dai consolati occidentali e utilizzati anche come ambasciatori e spie. La quasi totalità di questi funzionari studiava e si formava nelle Università italiane.
Viene ora più naturale comprendere perché l'Impero Ottomano scelse di redigere in italiano uno dei trattati internazionali più importanti della storia sua e dell'Impero russo. Come ci si è arrivati? Innanzitutto perché per tutto il Settecento i due imperi si sono fatti la guerra perché sono arrivati a toccarsi nell'area del Mar Nero, del Caucaso e dei Balcani. Guerre che vincono praticamente sempre i russi, rosicchiando via via sempre più terre ai turchi. Gli inevitabili negoziati potevano avvenire dunque nell'unica lingua occidentale che gli ottomani conoscevano: l'italiano, per l'appunto. Un ottimo compromesso per evitare divergenze di interpretazione, se si considera che la lingua russa parlata dai vincitori debba essere apparsa complicatissima ai negoziatori turchi. Il Khanato di Crimea, abitato dai tatari fino ad allora vassalli e cavalieri del Sultano, diventa russo e permette per la prima volta agli zar di proiettare la propria potenza nel Mar Nero. Una svolta geopolitica epocale, che Caterina la Grande celebra con monete che raffigurano la sua autoproclamata missione di "liberare" Costantinopoli, la "seconda Roma" prima di Mosca. Ancora oggi nella bulgara Dobrugia, oggi Kajnardža, c'è una targa che commemora questa svolta storica, anche in termini religiosi: "Qui il 21 luglio 1774 fu firmato il trattato di Küçük Kaynarca tra l'inviato di Caterina la Grande, il conte Pietro Rumjancev, e l'uomo fidato del Sultano Abdul Hamid I, il Gran Visir Musul Zade Mehmed Pascià. La clausola 7 di questo trattato dice: La Porta Sublime promette la protezione permanente della religione cristiana e delle sue chiese".
Prima del trattato turco-russo, il veneziano fu utilizzato come lingua per lettere e comunicazioni tra i governatori ottomani e gli imperatori occidentali. Parliamo pur sempre di un idioma straniero, trascritto in larga parte basandosi sulla pronuncia delle parole. Facile intuire, dunque, che molte lettere ufficiali e anche molto importanti potessero contenere strafalcioni incredibili in italiano, errori da matita blu diremmo oggi. Italiano turanico, sulla scia del futuro inglese maccheronico. "Colpa" dell'italiano meno curato (rispetto ai dragomanni) trascritto dagli ebrei sefarditi, profondamente contaminato dalle lingue ibero-romanze (spagnolo e portoghese). La doppia "t" nei participi passati è un classico ricorrente. Il caso più eclatante è forse una lettera inviata all'arciduchessa Maria Maddalena d'Austria, madre del Granduca di Toscana, da parte di Mehmet "bey" sangiacco di Szekszárd, cioè governatore di una regione amministrativa che l'Impero Ottomano controllava dopo averla sottratta al Regno d'Ungheria. Lo stesso termine "bey" ("signore") tradisce la preponderanza linguistica veneziana nel sistema ottomano: ancora oggi a Istanbul c'è un quartiere che si chiama Beyoğlu, letteralmente "figlio del signore", con probabile riferimento al rinnegato veneziano Lodovico Gritti, figlio illegittimo di Andrea Gritti che fu Bailo (ambasciatore, dal latino baiulus e molto simile allo stesso "bey") di Costantinopoli e anche Doge di Venezia. La sede del Baliato veneziano, dagli inizi del Cinquecento, si trovava proprio nel quartiere di Beyoğlu, nell'attuale Palazzo Venezia, e dal 1923 è sede del Consolato Italiano. Un'altra curiosità legata all'Italia: il distretto di Beyoğlu ingloba anche il quartiere di Galata, la medievale cittadina genovese vicino a Costantinopoli oggi conosciuta come Karaköy.
Ecco di seguito il testo integrale della lettera di Mehmet "bey" all'arciduchessa Maria Maddalena d'Austria, contenuta in "Lettere dall'Impero Ottomano alla corte di Toscana (1577-1640)" di Daniele Baglioni:
Sereniss(i)ma Gran Duquessa, son molti giorni che il Josef di Tizeo à andatto di V. A. S. con una litera mia per veder il modo che si debia da tener in quel casso et sono molti giorni che sono venutto in Rragugia esperando ordine di V. A. S. Et p(er)ché p(er) questa cossa visogniava parlar a boca p(er) molti rrespecti, como de la mia comisione consta, non dico altro, senò che por la nueva elecctione dil n(ost)ro Gran S re io una altra volta ando in Bozna a parlar con el exmo et illmo s r general paxà. Si V. A. S. voldrà veder ogni qualità d’este fatto et rresulutione di la Porta Exclessa, mande a li sigri raguzei una litera per me et dentro il passaporto p(er) andare; che loro me la fazano rracapitar et de longo andarò a dar satisfacion a V. A. S., senza altro che p(er) molti rragioni le eston in obligo et desiderarò servirla, che estando V. A. S. en alà con le sereniss(im)e sorelle io ò auto grandi favori di V. A. S. Et p(er)ché in la carta che con il Tizeo ò escripto ò detto a abastanza, non dico altro, senò pregar a Idio p(er) la sua felicittà. Di Rragugia, il primo di ottubro di 1623. V. A. S., se escriverà, podrà escrivirme in il Saraglio di la Bozna.
Di V. A. S. servitor - Mehemed bey, sangiaco di Secsar