L'Impero tedesco si arrende. L'armistizio di Compiègne fu firmato all'interno di un vagone, nel bel mezzo di una foresta francese: nulla di più coerente con le caratteristiche di un conflitto "tecnologico" ma legato ancora alla terra, al fango
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Sono le 11:11 dell'11 novembre 1918. In una foresta della Piccardia, in Francia, per la prima volta da tanto tempo non si sentono spari, grida, sibili e colpi di cannone. L'Impero germanico, il Secondo Reich del Kaiser Guglielmo II, si arrende alle potenze Alleate. La firma di quello che passerà alla storia come l'armistizio di Compiègne avviene all'interno di un vagone ferroviario, proprio nei luoghi in cui quasi mezzo millennio prima veniva catturata la grande eroina francese Giovanna d'Arco. Sembra incredibile, ma è tutto vero: la Grande Guerra è finita.
La fine della guerra "tecnologica", industriale, in cui vennero utilizzate armi mai utilizzate prima, non poteva che essere concordata a bordo del simbolo del progresso per antonomasia: il treno. E, dato che in fin dei conti la Prima Guerra Mondiale è stata l'ultima legata a certi metodi tradizionali di dar battaglia, letteralmente ancorati alla terra, al fango delle trincee più che ai cieli, non poteva che avvenire in un bosco.
L'undicesima ora dell'undicesimo giorno dell'undicesimo mese - Sul binario morto della linea Compiègne-Soissons (lo stesso su cui Hitler imporrà la resa alla Francia durante la Seconda Guerra Mondiale) i plenipotenziari tedeschi, guidati dal cattolico Erzberger, e il generale Foch, comandante degli eserciti dell'Intesa, firmano la pace con l'orologio alla mano, per far cessare le ostilità all'undicesima ora dell'undicesimo giorno dell'undicesimo mese del 1918. Ma come ci si era arrivati?
La Kaiserschlacht, l'offensiva di primavera tedesca "nel nome dell'imperatore", aveva colto di sorpresa le potenze Alleate, ma dopo tre mesi si era risolta in un completo fallimento. La successiva offensiva dei cento giorni da parte di Impero britannico-Francia-Regno d'Italia-Stati Uniti, il crollo della Bulgaria e la situazione insostenibile sul fronte occidentale non lasciavano più spazio a illusioni: la Germania aveva perduto la guerra.
Una settimana prima della firma, il 4 novembre, l'Austria-Ungheria era uscita dal conflitto stipulando l'armistizio con l'Italia, il cui esercito aveva sfondato il fronte nella pianura veneta. Soltanto due giorni prima della pace, il 9 novembre, la stessa Germania era invece preda del caos e della rivoluzione: la proclamazione della Repubblica costrinse il Kaiser a una fuga rocambolesca nei Paesi Bassi il giorno seguente. La stessa mattina della pace di Compiègne, l'imperatore Carlo I d'Austria abdica al trono.
Le condizioni della pace imposte alla Germania sono terribili, da contrappasso dantesco. L'obiettivo principale era impedirne il riarmo, evitando che potesse riprendere le ostilità. A Compiègne, prima, e a Versailles, dopo, si colpisce al cuore il corpo industriale tedesco. La prima imposizione è il ritiro entro 15 giorni delle truppe tedesche da tutti i territori occupati in Francia, Lussemburgo e Belgio. Entro i successivi 17 giorni i tedeschi avrebbero dovuto abbandonare anche tutti i territori sulla riva sinistra del Reno e consegnare le guarnigioni di Magonza, Coblenza e Colonia alle truppe d'occupazione francesi. Nelle mani di Parigi e degli Alleati sarebbero finiti anche cinquemila cannoni, 25mila mitragliatrici, tremila mortai e 1.400 aeroplani, nonché tutte le navi da guerra moderne. Ma, come abbiamo già visto per la firma dell'armistizio, è la ferrovia la vera protagonista: la Germania deve consegnare "a titolo di riparazione" anche cinquemila locomotive e 150mila vagoni.
E l'Italia? Sì, bisogna sempre chiederselo. Dalla disfatta di Caporetto si è passati a Vittorio Veneto, con in mezzo un anno di battaglie terribili e milioni di caduti, anche tra i civili. L'ultimo, disperato attacco austro-ungarico era avvenuto a giugno sul Piave nella cosiddetta Battaglia del Solstizio. Il generale Armando Diaz l'aveva respinto brillantemente, e per questo non aveva nessuna intenzione di rischiare tutto in un'offensiva.
Ma c'è fame di vittoria, c'è la volontà di dare senso e vendetta al sangue versato da padri, figli e fratelli italiani. Viene stabilito il 24 ottobre, a un anno esatto da Caporetto. Il peso dell'attacco è sostenuto però soltanto dalla IV Armata del generale Gaetano Giardino sul Monte Grappa: il Piave in piena impedisce l'avanzata. Che però viene compiuta tra il 28 e il 29 ottobre, con l'VIII Armata del generale Enrico Caviglia che varca in forze il fiume, con l'appoggio di alcuni contingenti alleati. La mattina del 30 ottobre due squadroni di lancieri di Firenze a cavallo entrano a Vittorio (che diventerà "Veneto" solo qualche anno dopo), accolti come liberatori dagli abitanti.
Al di là della gioia e della vittoria, per quanto "mutilata" fosse, la Grande Guerra costò un prezzo altissimo alle potenze occidentali. E in particolare all'Italia. Secondo le statistiche ufficiali, le vittime (militari) del conflitto furono 37.494.186: 8.538.315 morti, 21.219.452 feriti e 7.750.919 tra prigionieri e dispersi (il 57,6% degli uomini mobilitati, che furono 65.038.810). Almeno 680mila i caduti tra le fila italiane. Con noi a piangerli e a lodarli sempre e comunque. Anche oggi, anche cento anni dopo.