Per 45 minuti visualizzato un finto annuncio pubblicitario. L'azienda pagherà comunque i siti coinvolti
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Era convinto di lavorare nell'area "test" e invece si era inserito nella modalità reale e ha inviato un finto annuncio pubblicitario sui siti internet che usano Google per vendere i loro spazi. Lo stagista protagonista della vicenda, di cui nulla si sa, è costato al colosso di Mountain View almeno 10 milioni di dollari. E' il calcolo fatto dal Financial Times che per primo ha diffuso la notizia che poi è stata confermata dalla stessa Google.
Nessuna immagine scabrosa o testi imbarazzanti. Martedì scorso, per tre quarti d'ora, migliaia di siti che utilizzano il sistema di advertising di Google hanno visto sulle proprie pagine un rettangolo colorato anziché i canonici banner pubblicitari. La "colpa" è da attribuirsi a uno stagista che stava muovendo i primi passi nel sistema Google. Pensava di lavorare nell'area di prova e invece era sul sistema "live". Colpa che si dovrà anche dividere col suo tutor che evidentemente non lo stava seguendo proprio bene.
A rendere nota questa imbarazzante situazione è stato il Financial Times e Google non ha potuto far altro che confermare la notizia assicurando i propri clienti: tutti i banner visualizzati saranno pagati. E non sarà un conto da poco. Secondo i calcoli degli esperti del settore si tratta di circa 10 milioni di dollari. Questo perché durante la prova lo stagista aveva infilato un prezzo di acquisto degli spazi con un valore di 10 volte quello del mercato: 25 dollari ogni migliaio di visualizzazioni (CPM) contro un "normale" prezzo di 2/3 dollari.
La "sindrome del dito grosso" - Google ha saggiato sul campo quella che nelle sale operative di Borsa viene chiamata la "sindrome del dito grosso", cioè l'errore umano che passando per un tasto schiacciato erroneamente crea danni milionari. Ed è qui che entra in gioco l'intelligenza artificiale, la possibilità di affidare alle macchine le scelte da prendersi in frazioni di micro secondo. I computer le dita grosse non le hanno, ma siamo certi che affidare tutto a dei microprocessori è la soluzione? Ai posteri l'ardua sentenza.