Sullo sfondo delle uscite del presidente eletto ci sono i conflitti del futuro. I ghiacci dell'Artico si sciolgono velocemente e svelano nuove rotte, presidiate da russi e cinesi. Il collegamento fra Atlantico e Pacifico è anche al centro del dossier Panama. Il tutto condito dal nazionalismo in salsa "America First"
di Maurizio PerrielloDonald Trump ne ha sparata un'altra delle sue. Oddio, ora scoppierà davvero la terza guerra mondiale. Sono più o meno queste due le categorie di risposte alle ultime uscite del presidente eletto sulla possibile conquista (anche con la forza) di Groenlandia e Panama e sull'annessione del Canada come 51esimo Stato degli Usa. Può davvero succedere tutto questo? La verità, come sempre, sta nel mezzo. Da un lato il tycoon ha voluto calcare la mano sul nazionalismo esasperato a stelle e strisce, riassunto nel motto "America First", che ne ha permesso la rielezione. Dall'altro lo sguardo di presidente e apparati americani si proietta già in un futuro prossimo in cui la competizione per l'Artico e la grande sfida con la Cina si faranno concrete e pericolose.
Analizziamo punto per punto le dichiarazioni di Trump, a cominciare dalla Groenlandia. Se ne sono scritte di ogni: isola più grande del mondo dopo l'Australia, ricca di idrocarburi, uranio e terre rare e grande piattaforma strategica per la proiezione nell'Artico. Tutto giusto, ma la domanda è valida anche per gli altri territori: perché gli Usa non li hanno mai conquistati finora? Nel corso della loro storia, gli Stati Uniti hanno tentato di acquistare la Groenlandia più di una volta, l'ultima delle quali proprio ad opera di Trump durante la sua prima presidenza nel 2019. La domanda giusta dunque diventa: perché ora? L'isola fa parte della Danimarca, ma negli ultimi tempi è tornata a chiedere a gran voce l'indipendenza, annunciando anche un referendum. Trump è stato abile a inserirsi in questa frizione, scatenando l'inevitabile reazione degli Stati europei coi quali il contrasto era già stato delineato dall'annuncio di dazi e di un disimpegno statunitense nel continente. "L'Ue proteggerà i propri confini", ha infatti avvertito la Francia. Ma non c'è pericolo.
Al di là della propaganda, importantissima per una super potenza, l'obiettivo realmente perseguibile da Washington non è la conquista per mano militare di un territorio sovrano. Nel definire una "priorità assoluta" il controllo e "la proprietà" americana della Groenlandia, il presidente eletto mira con ogni probabilità alla firma di un accordo. Si parla di Compact of Free Association, una sorta di protettorato che si basa sulla cosiddetta "libera associazione". Si tratta di un modello di indipendenza e decolonizzazione riconosciuto dall'Onu, che la Groenlandia sta rincorrendo dagli Anni Novanta. In un dibattito parlamentare sulla Costituzione dell'isola svoltosi ad aprile, la libera associazione è stata definita come un modo di organizzare una futura sovranità. Gli Usa impianterebbero basi e militari americani sul territorio, in cambio del riconoscimento della piena sovranità e di cospicui aiuti economici e materiali. C'è un ultimo punto, comune anche agli altri territori rivendicati da Trump: l'ombra lunga della Cina. Pechino ha infatti da anni intrapreso grossi investimenti e appalti in Groenlandia, per sfruttarne le immani risorse e per mettere pressioni sui grandi rivali statunitensi.
Il comune affaccio sull'Artico ci porta dritti in Canada. Parliamo di un grande Paese inglobato nel continente nordamericano, già ampiamente sotto l'influenza statunitense senza necessità di un controllo federale diretto, che si dimostrerebbe soltanto un peso in più per l'amministrazione a stelle e strisce. Il Canada rappresenta già una costola "esterna" degli Usa, garantendo inoltre un voto allineato in più nell'ambito delle organizzazioni multilaterali e internazionali come l'Onu. Ci sono però altri fattori da considerare. Innanzitutto l'entusiasmo nazionalista di milioni di elettori, ereditato da decine di generazioni che da oltre un secolo sognano un'annessione del grande vicino settentrionale. La crisi del governo Trudeau e la crescente incertezza internazionale hanno fornito a Trump un'altra occasione per cavalcare l'onda. Secondo il tycoon, gli Usa "non possono più subire il massiccio deficit commerciale e sostenere gli aiuti di cui il Canada ha bisogno per restare a galla". Annettendo il Canada come 51esimo Stato federale, in maniera democratica e seguendo ogni passo dell'iter di legge, consentirebbe agli Stati Uniti di appropriarsi direttamente di mercato e risorse, aumentando la sua profondità strategica e garantendo a Washington di fatto il controllo diretto dell'intera "isola" nordamericana. Escluso ovviamente il Messico, col quale i toni sono decisamente meno pacati e amichevoli. Groenlandia e Canada ci introducono però il grande tema: la crescente competizione fra le potenze per il dominio dell'Artico.
L'Artico sarà il teatro della futura sfida tra le potenze del pianeta. Il cambiamento climatico e il riscaldamento globale hanno aperto e continueranno ad aprire nuove rotte commerciali su quello che gli esperti hanno definito il "futuro quinto oceano". Già adesso, quando è navigabile e dunque non nei mesi invernali, il Mar Glaciale Artico consente di dimezzare tempi e costi per il trasporto di merci dall'Asia all'Europa, da Est a Ovest. La Northern Sea Route appare poi ancora più decisiva in un periodo in cui la crisi del Mar Rosso costringe le compagnie commerciali a circumnavigare l'Africa per raggiungere i consumatori occidentali. Un'autostrada d'acqua che non è governata da alcuna legge e che vede una netta predominanza territoriale della Russia. Mosca ha impiegato due secoli a estendersi sulla grande costa settentrionale del mondo e si definisce uno "Stato artico in tutto e per tutto". "Spaccheremo i denti a chiunque tenterà di minacciarci nella regione", ha ribadito più di una volta Vladimir Putin. E infatti l'Artico è pieno zeppo di basi e navi militari russe, dopo che la Federazione è stata di fatto cacciata dal Consiglio Artico, nel quale sono rimasti soltanto altri sette Paesi occidentali. L'ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato e il pesante riarmo della Polonia hanno spostato l'asse dell'Alleanza Atlantica sul Baltico, profittando della guerra in Ucraina come occasione per militarizzare il fronte nord-orientale. Per contro, la Russia ha serrato la sua cooperazione strategica con la Cina, la quale ha investito miliardi e miliardi di yuan e tecnologie avanzate nelle infrastrutture artiche. Una controglobalizzazione in piena regola, ben più efficace delle fragili Vie della Seta. Il mare nostrum russo consente di collegare Atlantico e Pacifico con una semplicità sorprendente, ed è inoltre ricco di gas e petrolio. Pechino ha poi inviato per la primissima volta la propria Guardia costiera nazionale nelle acque nordiche, cementando una collaborazione anche militare con Mosca. Caduta la barriera dei ghiacci, a causa di clima e scavo umano, invasioni e guerre si faranno possibili.
Il collegamento fra oceani è al centro anche delle mire trumpiane su Panama. Il Canale artificiale consente il passaggio tra Atlantico e Pacifico senza dover circumnavigare l'intero continente americano. A realizzarlo praticamente furono proprio gli Stati Uniti, i quali nel 1901 ne ottennero il controllo per 99 anni. Il 31 dicembre del 1999, Washington decise di passare la gestione del corridoio marittimo lungo 82 chilometri allo Stato di Panama. Una mossa tattica, che però anni dopo ha permesso la penetrazione della Cina che, attraverso i consueti investimenti miliardari, vuole proiettare la propria influenza di potenza economica. Stavolta proprio nel cortile di casa americano, come già avvenuto per Cuba e Venezuela, per non dire dell'intera America Latina. Il controllo anche da remoto del Canale di Panama è cruciale per gli Usa, che in questo modo possono spostare agevolmente la propria flotta dall'Atlantico al Pacifico e viceversa. Molto di più: sul passaggio di Panama si basa l'intera egemonia statunitense. Egemonia messa appunto alla prova dalla penetrazione cinese e dal momento di stanchezza imperiale vissuta dagli Usa, sovraesposti sui teatri di tensione del mondo dal Medio Oriente a Taiwan. A insidiare la potenza americana nel nodo di Panama è anche il cambiamento climatico, con la morsa della siccità che ha messo e metterà a dura prova i flussi commerciali.
La salvaguardia della sicurezza e degli interessi nazionali sopra ogni cosa viene - nella propaganda di Trump - prima di ogni alleanza o trattato. L'altro grande grattacapo per la sicurezza americana, in questo senso, è il Messico. La retorica sull'immigrazione illegale e il celebre muro al confine sono cavalli di battaglia del presidente eletto, che in pieno fervore nazionalista non ha mancato di attaccare anche l'ingombrante vicino meridionale. Affermando di volere cambiare il nome del Golfo del Messico in "Golfo d'America". A testimonianza del fatto che il controllo dei mari, specialmente di quelli "casalinghi", resta il nucleo e la principale preoccupazione della potenza americana. La deputata repubblicana della Georgia Marjorie Taylor Greene ha già annunciato di voler presentare una legge per modificare il nome geografico del Golfo deciso all'epoca dell'Impero di Spagna sulle mappe di esercito e istituzioni federali. Propaganda contro propaganda, la contromossa del Messico non si è fatta attendere. La presidente Claudia Sheinbaum ha risposto a Trump e soci mostrando una mappa del 1607, quando cioè il Messico comprendeva i territori conquistati in seguito dagli Usa con la forza. E con tanto di nomi originali: Tejas (odierno Texas), Nuevo Mexico, Arizona, Yuta (odierno Utah), Nevada e California. La replica piccante a Trump si è conclusa con un altro lazzo dal gusto storico: il Capo di Stato messicano ha detto che il tycoon ha illustrato il suo nuovo progetto "dalla fiera di Mar-a-Lago, nel territorio di La Florìda, in Nueva España, Capitania General de Cuba", sulla costa del "Gulfo de México". "Potremmo chiamare gli Usa America messicana", ha chiosato.
Se c'è una cosa che la storia ci ha insegnato, è che può succedere di tutto. Anzi, spesso accade esattamente ciò che non ci si aspettava. Sulla fattibilità della conquista o dell'annessione di altri territori o Stati da parte degli Usa esistono però enormi ostacoli. Il primo è la missione liberatrice e democratica che Washington si è autoassegnata nel Novecento: se dovesse utilizzare la forza militare per appropriarsi di terre legittimamente appartenenti ad altre nazioni, distruggerebbe la base retorica sulla quale ha costruito il suo attuale impero. Un secondo motivo è rintracciabile nella maniera americana di essere impero: senza dirlo apertamente, relegando le proprie province (Europa inclusa) in una condizione economicista e post-storica, tenendo lontano lo spettro della guerra vera come garanzia di controllo, dominando i mari. Uno schema entrato certamente in crisi negli ultimi anni, come percepito dai rivali e come dimostrato dallo scoppio simultaneo di più fronti di guerra.