A Tgcom24 il racconto della volontaria e focolarina 42enne Mira: la fuga da Kiev alla Transcarpazia, l'organizzazione dell'evacuazione dei civili e la gestione degli aiuti umanitari
di Giorgia Argiolas© Tgcom24
Mira ha 42 anni, è slovena, ma dal 2019 vive nel focolare di Kiev (che, per spiegarlo con le parole dell'Opera di Maria fondata da Chiara Lubich nel 1943, è una "comunità nella quale vivono quanti nel Movimento hanno pronunciato voti di castità, povertà e obbedienza"). Da qualche mese, inoltre, lavora alla Caritas Spes Ucraina. Quando è iniziata l'invasione russa, il 24 febbraio, si trovava a Odessa. È poi tornata a Kiev, ma è dovuta subito scappare. Da allora si è stabilita nella regione della Transcarpazia, da dove coordina evacuazioni delle famiglie e aiuti umanitari. In poche ore, ha cambiato vita, ha lasciato la sua casa e i suoi affetti. L'invasione ha sconvolto i suoi piani. Ciò che l'ha tenuta e la tiene in vita è aiutare le persone. "Organizziamo l'evacuazione dei bambini dagli orfanotrofi, delle ragazze madri dalle case di accoglienza. Abbiamo costruito un sistema logistico insieme alle Caritas della Polonia e della Slovacchia che funziona bene. Non capisco questo conflitto, non è logico. Spero solo che l'odio si fermi perché adesso si stanno uccidendo i civili", spiega Mira a Tgcom24.
Improvvisamente ha dovuto lasciare tutto e partire, com'è andata?
Da qualche mese con la Caritas Spes mi occupo dei progetti sulla violenza domestica. Mercoledì 23, mi sono recata a Odessa per partecipare a una conferenza con i direttori delle Caritas delle diocesi. Il 24, alle 4 di mattina, ci hanno svegliato le bombe. Ho sentito i colleghi che gridavano nei corridoi: "Mira, dove sei? Andiamo!". Io chiedevo cosa fosse successo, una di loro mi ha guardato e mi ha detto: "La guerra". Allora ho messo velocemente tutto in valigia, non mi sono neanche lavata e siamo partiti per Kiev. Entrando in città, mi batteva il cuore vedendo chilometri e chilometri di macchine che se ne andavano. Una volta arrivati, io e i colleghi abbiamo sentito le sirene, siamo andati subito in chiesa per trovare riparo, non sapevamo dove nasconderci. Dopo qualche ora, siamo partiti nuovamente.
Di nuovo in fuga…
Sì, gli amici mi chiamavano dicendomi di scappare. "Come aiuterai le persone se sarai morta?", insistevano. Non sapevamo neanche come continuare il nostro lavoro, abbiamo valutato come e dove evacuare. Poi ci siamo divisi in varie parti del Paese. Io e il presidente della Caritas ci siamo rimessi in macchina alla volta della Transcarpazia, dove siamo arrivati dopo oltre 24 ore. Altri colleghi sono rimasti a Kiev fino a qualche giorno fa, mentre la maggior parte è in Polonia per aiutare chi arriva. Kiev è la mia casa, la valigia che avevo a Odessa è quella che ho qua, non ho preso nulla. Ma le cose sono cose, il difficile è lasciare la gente che conosci, che frequenti quotidianamente, gli affetti insomma.
Prima dell'invasione si aspettava che quest'incubo si sarebbe concretizzato?
No, per niente. Nessuno se lo aspettava. Pensavamo che il conflitto si sarebbe limitato al Donbass. La guerra in Ucraina c'è dal 2014, ma era lontana. Quando tocca a te è un'altra cosa.
Ora come sta?
Io sto bene, mi sono stabilita in una parrocchia, in un posto dove non cadono le bombe, in Transcarpazia, vicino al confine con Slovacchia e Ungheria (preferisco non dire il nome della città per la sicurezza mia e dei miei colleghi così da poter continuare ad aiutare le persone). Tuttavia, ogni minuto mi chiama qualcuno. Un mio amico mi ha telefonato poco fa dicendomi che nel villaggio dove abitano i suoi genitori, a 30 chilometri da Kiev, hanno bruciato la chiesa. Prima provavo rabbia, ora tristezza. Paura, però, mai. Forse perché non ho pensato a me stessa, ma sempre agli altri, questo mi ha salvato. In generale, vedo tanta solidarietà tra la gente. Molta più di prima.
La situazione lì com'è?
Tranquilla, noi siamo dietro le montagne. Non so poi cosa accadrà…
Com'è organizzata la Caritas? Che tipo di auto fornite?
In questi giorni, nei posti più bombardati, abbiamo aiutato a evacuare bambini da orfanotrofi, ragazze madri da case accoglienza e alcuni fedeli delle parrocchie (si tratta per lo più di donne e minori, gli uomini non possono uscire). Il sistema logistico è ben organizzato. Facciamo poi in modo che le persone non si sentano mai sole. Anche perché hanno paura, specialmente le ragazze sono spaventate a uscire da sole, in guerra può succedere di tutto. Inoltre, abbiamo allestito dei rifugi (a Odessa e anche in altre città sono sotto le chiese), distribuiamo viveri, medicinali, vestiti e andiamo al confine ad aiutare. Dalle Caritas degli altri Paesi stanno arrivando tanti materiali che poi vengono smistati.
Cosa le dà la forza di affrontare tutto questo?
In questi momenti prendi la forza dallo stare insieme. Non sei solo. In questi giorni, nonostante tutto il lavoro, ho sempre cercato di restare in contatto con le persone che conosco a Kiev e in altre città, le ho incoraggiate a scappare perché la vita è più importante di un pezzo di terra, di una casa. A volte, mi sono permessa di insistere e qualcuno è partito. Qui c'è in gioco la vita. Non so cosa succederà, non voglio nemmeno pensarci, però sono grata a Dio che alcune persone se ne siano andate e così si siano salvate.
Per ora lei non ha intenzione di lasciare l'Ucraina?
No, assolutamente. Qui c'è tanto bisogno.
Cosa pensa di questa guerra?
Nei tre anni che ho vissuto qui, nonostante la diversità di religione, cultura, lingua, non ho mai avvertito un conflitto. Durante gli incontri che facevamo in focolare si parlava in russo e ucraino, non c’è mai stata alcuna discriminazione. Non capisco questa guerra, non combacia con quella che è la realtà di tutti i giorni. Non è logica. Ora spero solo che tutto questo finisca, che succeda qualcosa di risolutivo. Perché adesso non si stanno colpendo solo gli obiettivi militari, si stanno uccidendo le donne e i bambini, è quello che mi preoccupa di più. È vero che le città sono distrutte, che la gente non può tornare nelle proprie case, ma qui si tratta della vita delle persone. Penso, inoltre, che anche i russi soffrano, anche se molti di loro - lo so dalla sorella di un mio amico che vive a San Pietroburgo - non sanno e non credono che qui ci sia una guerra.