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Come si fa ad andare (o tornare) in Ucraina? Come si vive in un paese in guerra? Cosa è rimasto di quello che c'era prima? Il racconto di Dmytro e di sua madre Katia, badante in Italia, di Irina, Olena, Oleg e Oleksandr
di Maurizio Perriello© Afp
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In Ucraina la vita continua a scorrere tra le ferite aperte dalla guerra, a un anno dall'invasione russa. Nonostante le bombe, le case distrutte, le città ridotte a macerie, le famiglie dilaniate dal dolore e dalla paura che la prossima bomba venga a prendersi un altro fratello, un'altra sorella. Le storie di questa resistenza nella Resistenza sono lontane anni luce dal nostro benessere e dalla nostra memoria, ormai persa nelle nebbie del Novecento. Tornare (o andare) in Ucraina oggi vale un racconto epico: un'Odissea per il viaggio, un'Iliade per la guerra e la devastazione. Un racconto fatto di volti e di vite: quelle di Dmytro e di sua madre Katia, badante in Italia, di Irina, Olena, Oleg e Oleksandr. E di migliaia di altri ucraini che sono rimasti o che fanno ritorno in patria.
Alcune testimonianze sono state raccolte da Giuseppe Bertuccio D'Angelo, ideatore del Progetto Happiness e autore di un reportage nelle zone ucraine devastate dalla guerra, grazie alla collaborazione della fixer per inviati di guerra Maria Volkova. Altre sono giunte alle mie orecchie tramite una signora ucraina di 68 anni dagli occhi blu e i capelli color grano, come nella bandiera ucraina, che lavora come badante in un paesino del Sud Italia: Katia. Nel suo Paese ha lasciato il cuore e un figlio, Dmytro, rimasto per liberare la patria dagli occupanti russi.
Un occidentale che vuole arrivare in relativa sicurezza in Ucraina deve passare dalla Polonia. Alla stazione dei bus di Varsavia c'è continuo fermento e una selva di mezzi. La durata del viaggio sulla carta è di 14 ore, che diventano 20 con i continui posti di blocco militari lungo il percorso. Nessuno o quasi parla inglese e non c'è prenotazione online: vai e chiedi. La quasi totalità delle corse è diretta a Lviv, Leopoli per noi, una delle città più occidentali d'Ucraina non solo dal punto di vista geografico. Chi sale sul bus è di Leopoli, principalmente, ma chi vuole raggiungere altri punti del Paese invaso dovrà fare cambio lì e affrontare un'altra odissea, ben più pericolosa. Una volta raggiunto il confine, ogni manciata di metri percorsi sale un soldato sul bus a ricontrollare i passaporti. Ancora e ancora.
A Leopoli sembra tutto tranquillo, un rifugio sicuro lontano dall'orrore del fronte e dell'apocalisse che passa in televisione. Ma anche qui la paura serpeggia potente, perché non lontano si trovano i centri di addestramento e di reclutamento a guida occidentale, già bersaglio dei raid russi. Qualche mese fa le bombe piovute su quattro centrali elettriche, parte della tattica russa di indebolire l'Ucraina nelle sue attività civili e quotidiane, avevano lasciato la città al buio per settimane. Al cambio del bus la maggior parte dei passeggeri sono donne, che tornano periodicamente a trovare le famiglie e soprattutto i mariti rimasti a difendere la patria. Le ragazze più giovani parlano un inglese invidiabile, come Irina, che viveva a pochi chilometri da Dnipro. Dice di non essere "triste o depressa", ma "felice e determinata". Poi c'è Katia, che prima della guerra tornava nella sua Leopoli una volta l'anno, e che adesso non vede casa da più di 400 giorni, perché suo figlio le ha detto di restare al sicuro in Italia nelle brevissime telefonate che si scambiano ogni giorno.
Guardando le foto che mi mostra Katia, ripenso istantaneamente alle pagine del diario del mio bisnonno, caporale dell'esercito italiano durante la Prima Guerra Mondiale, mandato sul Carso, duemila chilometri lontano da casa e dal cuore, in un Friuli devastato dal conflitto, con case ridotte a ruderi e fiumane di profughi che trascinavano i loro quattro stracci senza più luce negli occhi, staccati da loro stessi. Alcune donne camminavano da giorni col neonato al seno, senza accorgersi che era morto. Cent'anni dopo e qualche centinaio di chilometri più a Est, quella memoria persa e terribile sembra riprendere vita. Un palazzo di Gorenka, a 30 chilometri da Kiev, è stato diviso a metà, come tagliato da una sciabola. Si possono vedere le stanze e la quotidianità di chi ci abitava: gli armadi, le credenze, gli scaffali, le scarpiere, le pentole ancora sui fornelli, perfino qualche quadro. Oltre ai calcinacci anche vestiti, scarpe, libri, elettrodomestici. Le persone hanno lasciato tutto e sono fuggite, congelando la quotidianità nel momento esatto del bombardamento. Tutto perso in un istante. La guerra è venuta e ha rubato anche il tempo.
Appena arrivi in Ucraina ti dicono di scaricare una app che ti avverte dove stanno per bombardare almeno 10 minuti prima che scattino le sirene. Basta selezionare la zona interessata o geolocalizzarsi. Quando scatta l'allarme antiaereo, lasci qualunque cosa tu stia facendo e corri in cantina o in un rifugio sotterraneo. Se non restano soltanto macerie, qualcuno resta a vivere nei locali che ancora consentono un seppur lieve riparo. La maggior parte resta negli scantinati, senz'acqua, senza corrente, senza riscaldamento. Scalda più la vodka che i fuochi di fortuna accesi in un bidone di latta e la cena la devi andare a prendere dai volontari a orari stabiliti. Se salti l'appuntamento resti a stomaco vuoto. Ogni due tre civili, si vede un soldato, che civile lo era fino a qualche mese prima. Per molti gli attacchi contro i civili sono cominciati quando i russi hanno capito di non poter arrivare a Kiev, per la distruzione dei ponti e la resistenza dell'esercito. Da allora davvero non c'è più stata pace. Come fanno a sopportare tutto questo, a continuare a vivere nonostante tutto? "Vivo con la convinzione che andrà tutto bene", afferma un ucraino intervistato da Giuseppe Bertuccio D'Angelo. La stessa identica frase l'ho sentita da Katia, mentre mi leggeva i messaggi di suo figlio: "Andrà tutto bene, ne sono sicuro". Lo sguardo azzurro sempre in alto, oltre le nuvole e le bombe, oltre la stessa speranza, ficcato dentro al futuro. Prima di arruolarsi come volontario, Dmytro faceva l'idraulico e aggiustava le caldaie. "Non avevo scelta, dopo due giorni ero al centro di reclutamento vicino casa".
Ci sono però anche una serie di ucraini che dall'inizio della guerra si sono organizzati per evitare la leva imposta dalla legge marziale e sfuggire ai "reclutatori stradali" attivi nei mercati e nelle stazioni del Paese. Persone che per strada fermano giovani e meno giovani, con metodi non proprio ortodossi. Scoppiarono anche violente proteste e furono raccolte firme per vietare le convocazioni agli uffici di reclutamento, ai posti di blocco e alle stazioni di servizio. Ma la patria era più importante. Intanto però chi resta e non combatte, vive alla giornata, lottando contro il freddo e la fame. Si calcola che un cittadino su cinque abbia riparato all'estero nei primi mesi del conflitto, ma molti di questi fanno ritorno a casa, seppur per brevissimi periodi. La maggior parte delle migliaia di "fuggiaschi" erano uomini tra i 18 e i 60 anni, il genere e la fascia di età cui il governo Zelensky aveva proibito di superare il confine nazionale. Come in ogni grande migrazione incontrollata, c'è chi ha fatto affari d'oro lucrando sulla situazione. Le organizzazioni di contrabbando in Moldavia, ad esempio, chiedevano fino a 15mila dollari per un viaggio clandestino notturno fuori dall'Ucraina. Il governo, da parte sua, ha minacciato di incarcerare i renitenti alla leva e confiscarne le case. E' uno dei lati oscuri di una guerra definita "giusta" da chi difende la propria patria, ma che non edulcora il dolore delle famiglie.
"Conosco ragazzi che non uscivano nemmeno dal loro appartamento per la paura di ricevere una convocazione", scrive Dmytro alla madre rispondendo a una mia domanda. "Io no, mi sono presentato all'ufficio spontaneamente". Tornassi indietro lo rifaresti? "Sì. L'Ucraina è la terra di mia madre e di mio padre, non la Russia. Ho fiducia nel futuro, penso che dopo la guerra vivremo tutti bene". Questa convinzione è fortissima in chi è rimasto a vivere in condizioni ignobili per colpa della follia della guerra, ridotto a nascondersi in uno scantinato, perfino a rubare per sopravvivere. "L'Ucraina è forte! Sopravviveremo", afferma invece Oleg.
C'è anche chi, come Olena, si ricorda un'epoca in cui "non si sapeva chi era russo e chi era ucraino, eravamo tutti parte di uno stesso popolo. Era così fino a qualche anno fa, ma ancora di più prima del 1991. La vita era difficile per altri motivi: a volte ci pagavano in fabbrica con cereali o cibo, ma almeno eravamo sereni". Olena ha 81 oggi, il figlio è morto in guerra ed è rimasta sola nella casa sventrata dalle bombe nella zona in cui ha sempre vissuto. "Dove posso scappare, dove posso andare? Questa è casa mia, altrove cosa farei? Come mi sentirei? Che vita sarebbe?".
La guerra è diventata parte della quotidianità di milioni di persone da ormai otto anni. A Bakhmut si va a prendere da mangiare dagli operatori umanitari con spari e boati di sottofondo. Molti non battono neanche più ciglio, si trascinano guardando in terra, mossi da un istinto di sopravvivenza mista a disperazione e determinazione. La pace per questa gente non è la fine di questa guerra, che i negoziati possono solo rimandare al prossimo pretesto per contendersi qualche altro territorio. La vera pace è quando due generazioni non si ricordano più il tempo in cui c'è stata la guerra. "Io posso morire anche oggi, non m'importa. Ma i miei nipoti e i loro nipoti vivranno ancora e con loro l'Ucraina che i miei nonni hanno conosciuto. Un'Ucraina in cui il vicino non aveva nazionalità nemiche, ora ci vorranno almeno cento anni per dimenticare tutto questo", dice Oleksandr, 73 anni e la faccia scavata dalle rughe.
Oleg ha un fratello che un giorno è tornato a casa e ha trovato due militari russi ad aspettarlo. Era dentro il giardino, calmi e fermi. Lo hanno preso e portato via e sbattuto in una cella piccolissima, assieme ad altri cinque ucraini. Niente lavabo, niente servizi sanitari, solo un boccione d'acqua da cinque litri. Lungo la strada e nella stanza dell'interrogatorio gli hanno chiesto ancora e ancora perché avesse esposto la bandiera ucraina fuori dalla finestra di casa sua. La risposta non l'hanno neanche ascoltata e hanno cominciato a picchiarlo, talmente forte da impedirgli di stare sdraiato. A un altro prigioniero è andata peggio: oltre al pestaggio, è tornato in cella con un telefono legato al piede, messo lì per dare una scossa elettrica a intervalli non regolari. Il giorno dopo l'avrebbero ucciso, e gliel'hanno detto. Tutto questo Oleg è venuto a saperlo perché il fratello è stato liberato dopo la ritirata russa dall'oblast di Kherson.
"Slava Ukraïni!" lo senti gridare anche negli scheletri dei palazzi sventrati dalle bombe, nella miseria mista al terrore che la tua vita non venga soltanto tolta, ma annientata e privata della sua nazionalità. "Slava Ukraïni!" lo urlano gli occhi dei figli di una nazione che vuole soltanto tornare ad ammirare un cielo azzurro e un campo di grano dorato. Come nella bandiera nazionale.