L’industria del risparmio italiana ha fatto largo uso delle commissioni di performance nel recente passato. Per commissioni di performance, come già spiegato in un altro articolo, si intendono quelle prelevate dalle società di gestione in base ai risultati conseguiti dal fondo, quindi all’overperformance ottenuta rispetto al benchmark di riferimento. Sono costi difficilmente quantificabili nel momento dell’investimento e rappresentano un aspetto lesivo per i rendimenti dei risparmiatori. In Italia, negli ultimi anni, sono diventate una delle principali fonti di ricavo degli operatori finanziari.
La Consob
Negli ultimi anni la tendenza è in crescita. La Consob, già nel 2015, ha ammonito gli intermediari finanziari ad assumere delle regole di condotta per evitare conflitti di interesse. Le commissioni di performance, se applicate o calcolate in modo improprio, anche secondo l’organismo che regola la Borsa, possono creare comportamenti opportunistici a danno della clientela.
Il conflitto di interesse
Nello specifico, il conflitto di interesse può esistere sia per il collocatore, la banca o il consulente, sia per il gestore. È vero che il distributore non riceve benefici diretti dalla quota parte relativa alle commissioni di performance, ma in molti casi appartiene allo stesso gruppo della società di gestione che, invece, incassa la quota delle commissioni. Va inoltre considerato il “moral hazard” in cui potrebbe incappare il gestore, essendo incentivato a cercare rendimenti più elevati, trascurando una gestione del rischio ottimale.
Il peso delle commissioni
Il peso delle commissioni di performance, nel 2017, sul totale delle commissioni attive è aumentato a livello aggregato, rispetto al 2016, secondo quanto riportato nella ricerca del Centro Studi di Moneyfarm, società che si occupa di gestione del risparmio che ha elaborato una una guida per aiutare gli investitori a fare chiarezza sui costi dei propri investimenti. Il dato dello scorso anno conferma che questo tipo di commissioni vanno a impattare direttamente e negativamente sul risultato finale del cliente, oltre che a risultare spesso un costo nascosto nel momento in cui un investitore sottoscrive l’acquisto di un fondo comune.
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