Il direttore di Tgcom24 e dei new media di Mediaset a ruota libera su politica, giornalismo, Montanelli, Sofri e Totti
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Ecco l'intervista integrale realizzata da Maurizio Caverzan per il quotidiano "La Verità", pubblicata domenica 23 luglio
Il giornalista richiamato dalla pensione per creare un sistema di comunicazione integrato e d’avanguardia non si era ancora visto. Invece esiste e lavora insieme a noi. Si chiama Paolo Liguori, ha 68 anni, dirige Tgcom24 e i nuovi media di Mediaset. Come certi poliziotti del cinema americano, ha combattuto parecchie battaglie senza diventare cinico e ora è di nuovo in prima linea. Il suo film potrebbe intitolarsi Ritorno al futuro.
Perché un telespettatore dovrebbe scegliere Tgcom24 anziché le reti all news della concorrenza?
«Non è il telespettatore che sceglie Tgcom24, siamo noi che lo seguiamo ovunque. Il telespettatore statico davanti alla tv ha ceduto il posto a un uomo dinamico, cacciatore di notizie, che continua a informarsi mentre è in metrò o in sala d’attesa dal medico».
È per questo che sei tornato, come in un film?
«Questo è un lavoro, ma anche una passione e un sogno. La passione consiste nel realizzare qualcosa che non esisteva: un sistema integrato tra tutti i media e con un unico marchio. Fino a ieri tv, radio e internet erano considerati alternativi. Invece, sono convergenti».
Il sogno?
«È chiudere il cerchio. Completare una carriera in cui ho lavorato come cronista politico, giornalista d’inchiesta, direttore di settimanali e quotidiani e in tv ho fatto programmi e diretto telegiornali. Sapendo che il nostro è un mestiere, non una professione».
Spiega.
«I professionisti studiano per salvare vite umane o costruire città, il giornalismo è un mestiere che s’impara facendolo. I migliori di noi sono bravi artigiani. L’idea di considerarsi professionisti è il primo equivoco dal quale metto in guardia i ragazzi in università. Poi ce n’è un altro».
Sentiamo.
«Considerarsi intellettuali, mentre siamo osservatori. I migliori sono buoni analisti».
Sei anche responsabile dei New media di Mediaset: formula altisonante.
«Quando, oltre i cinquanta, mi sono messo a studiare il sistema digitale ho scoperto che non riguardava internet, ma conteneva un cambiamento di ritmo dell’intera società. Ma ero isolato. Anche dentro Mediaset si pensava che tv e internet fossero alternativi. Se si parte dal fattore tempo, internet lo toglie alla tv. Ma se si parte dalla persona che lavora, viaggia o va a scuola, il digitale è un modo più potente per seguirla».
Tornando alla domanda iniziale: in cosa Tgcom24 è diverso dalle altre reti all news?
«Noi facciamo informazione a flusso. Che è diversa dall’informazione a rullo, confezionata e ripetuta. Se c’è un avvenimento, tipo l’incendio di Castel Fusano o uno sbarco di migranti, ci fermiamo e approfondiamo. Se ho le immagini, le metto nei social, attivo le dirette su Facebook, attendo i commenti della gente, che riporto in tv. Abbiamo un bacino totale di pubblico di 27 milioni di persone, una platea che la Rai ha per Sanremo o per un match della Nazionale. Gli esperti lo chiamano sistema della convergenza».
Risultato?
«Quest’anno l’incremento di ascolti è stato del 24%. Il canale esplode quando ci sono gli eventi, fino a un milione di spettatori».
Ricominciamo da capo. Come «Straccio», appartenente agli Uccelli della facoltà di Architettura di Valle Giulia è diventato un dirigente Mediaset?
«Allo stesso modo in cui Marco Polo imparò il cinese: viaggiando. Durante il viaggio dalla contestazione situazionista all’impegno nella società dello spettacolo mi sono ritrovato nella scena che Guy Debord, Marshall McLuhan e Herbert Marcuse avevano preconizzato negli anni Sessanta. Mi spiace per chi non ha letto quegli autori al momento giusto, scoprirli adesso è come accorgersi del genere femminile da vecchi».
Lotta continua è stata un luogo esistenziale, uno strumento della lotta di classe, un capitolo del passato?
«È stata un capitolo preceduto da quello della contestazione, che ha lasciato il passo ad altri capitoli. Ma quello di Lc non è stato conseguenza di quello degli Uccelli».
Definisci Adriano Sofri.
«Una persona molto intelligente, che ha grande bisogno di affetto ed è capace di darne molto. Anche per leader così il ’68 è riuscito a trasformare la persona da oggetto a soggetto della comunicazione».
È il mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi?
«Assolutamente no. È una sciocchezza, voluta e costruita».
Ci sono stati parecchi processi.
«I tanti gradi di giudizio non m’impressionano né per Contrada, né per Bossetti e nemmeno per Sofri. Quando non c’è una storia ricostruita con chiarezza, i processi sono la quantità di chiodi che servono a crocifiggere una persona. Non serve dire che è una storia cominciata duemila anni fa».
Nei processi si verificano prove e testimonianze.
«Sono l’equivalente della scelta del metallo con cui sono costruiti i chiodi».
Dopo un po’ di gavetta sei stato assunto al Giornale a Roma. Un giornale conservatore…
«Era il Giornale di Indro Montanelli».
Come nacque l’inchiesta sui fondi per la ricostruzione dell’Irpinia?
«Montanelli aveva scritto un editoriale su De Mita intitolato Il padrino. De Mita querelò, Montanelli s’infurentì e mi chiamò: ≤Devi partire per le zone del terremoto, investigare su tutto e dimostrarmi che in quella situazione De Mita si è comportato da padrino≥. Finì con una commissione d’inchiesta parlamentare presieduta da Scalfaro che non arrivò a conclusioni certe, anche se conteneva severissime critiche a chi aveva amministrato i fondi del terremoto traendone potere. De Mita era contemporaneamente Presidente del consiglio e segretario della Dc e nella Prima repubblica era proibito».
Chi era Indro Montanelli?
«Il genio per un giorno. Genio del quotidiano, insuperabile a cogliere il fatto principale, scriverlo e descriverlo con una lingua chiara ed efficace, mai vista né prima né dopo».
Ti avvicinasti ai socialisti. Cosa ti piaceva del Psi?
«L’impostazione solidarista e Bettino Craxi. Se non l’avessi conosciuto mi sarei dimenticato del socialismo. Come partito preferivo la Dc».
Definisci Bettino Craxi.
«Un politico un passo avanti rispetto a tutti gli altri. Oggi nessuno ricorda più che D’Alema e Occhetto andarono a parlare con lui perché erano disperati per l’ottusità del loro partito».
Hai diretto Il Sabato, vicino a Comunione e liberazione, dove ci siamo conosciuti.
«Altro capitolo molto importante. Imparai due cose distanti tra loro: la centralità della persona e la grandezza del mondo. Il Sabato fu la mia prima direzione. Da cane sciolto a direttore: ho fatto i conti con il principio di responsabilità».
Lc e Cl invertono le iniziali: avevano qualcosa in comune?
«Erano due mondi in movimento. Al Sabato prevaleva un movimentismo con dei valori, ma senza schemi bloccati».
Definisci don Luigi Giussani.
«Frequentandolo ho capito cos’è il carisma. Montanelli era carismatico come giornalista, Giussani con poche parole ti fulminava».
Negli anni di Mani pulite hai diretto Il Giorno tenendo una linea garantista. È stato il momento più duro della tua carriera?
«È stato un momento duro, c’erano minacce. Ma lo rifarei. Erano pochi quelli che guardavano Di Pietro negli occhi. Molte di quelle inchieste sono finite nel nulla, le persone venivano incarcerate per farle confessare. C’era qualcosa di bestiale in quel trattamento. Mi colpirono i casi di Franco Nobili, presidente dell’Iri, che aveva nulla a suo carico, e di Clelio Darida, sindaco di Roma. Quella del Giorno fu una bella esperienza. Conclusa quando l’Eni decise di cedere il giornale perché infilata nelle inchieste, per uscire dalle quali fece degli accordi».
Esiste un modo di fare l’Eni trasparente?
«Non credo che in questo momento abbiamo un modo trasparente di difendere le nostre aziende in Libia, dove trattiamo con i miliziani ribelli».
Poi sei entrato in Mediaset.
«Ho fatto l’apprendistato nella tv studiando da Mentana, in un ufficio accanto al suo. Poi mi chiamarono per Studio aperto. Ricordo alla riunione di Arcore Gianni Letta ed Emilio Fede concordi con la decisione di Berlusconi di affidarmi quell’incarico. Credo che mai più si siano trovati d’accordo su qualcosa».
Definisci Silvio Berlusconi.
«Un’altra persona di immenso carisma. Berlusconi aveva e ha tuttora un fascino e una vitalità superiori a tutti quelli che ho conosciuto. È unico, lo dico senza piaggeria».
Ha sprecato delle occasioni?
«Quelle che ha avute le ha sfruttate, quelle che non ha usato non lo erano. Ha patito una quantità di odio da vivo che Mussolini ha avuto da morto. Ha costruito tante occasioni dov’erano impensabili, compresa la strada riaperta ora per il centrodestra».
Sei tifoso della Roma, vedi Francesco Totti dirigente?
«Temo farà una fatica enorme, come se io dovessi fare il politico».
Cosa guardi in tv?
«Gli eventi. Credo che alla fine ci sia quasi sempre una manipolazione, magari ben fatta. Mi piacciono gli eventi in diretta, a prescindere dal genere: una partita, il Festival di Sanremo, un attentato. Il giornalismo in diretta è l’unica possibile verità nell’era della post-verità».
Libro della vita?
«La montagna incantata di Thomas Mann. Poi ho letto molto i russi».
Film della vita?
«Forse Il cacciatore di Michael Cimino. O Il padrino».
Berlusconi quale Matteo dovrebbe scegliere?
«Dovrebbe cambiare vangelo e passare a quello secondo Giovanni, più tosto e severo».
Puntare su Giovanni Toti?
«Toti ha vinto tutte le elezioni in Liguria, regione tradizionalmente di sinistra. È uno fedele ma con una sua personalità. Ricorda il Renzi, sindaco di Firenze. Se invece sceglierà un garante esterno a Forza Italia, Maroni o Zaia vanno benissimo».
Chi sono i tuoi amici?
«Ne ho tanti. Ma cito Mauro Crippa, il suo vice Andrea Delogu, e Niccolò Querci, vicepresidente Rti».
Definisci Paolo Liguori.
«Un ragazzo ancora intellettualmente vivace e in movimento».