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Dieci ore tesissime a Palazzo Madama: il discorso del mattino non è conciliante, piccata la replica del pomeriggio al termine del dibattito
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La giornata più lunga di Mario Draghi si consuma al Senato. Dieci ore tesissime, vissute sul filo di una crisi al buio, in cui il premier sveste i panni del tecnocrate e finisce nel turbine di trattative politiche intavolate last minute per mandare avanti il suo esecutivo. A fine giornata, di fronte alla disgregazione plastica della maggioranza, tira le somme e mette i partiti davanti alle loro responsabilità, chiedendo il voto di fiducia. Prima, però, intervenendo in replica, decide di mettere alcune cose in chiaro con durezza e toni a tratti alterati. "Da me nessuna richiesta di pieni poteri, va bene?", si scalda rispondendo alle accuse che gli erano state rivolte in Aula. E sul superbonus punta il dito su chi ha disegnato i meccanismi di cessione, alzando la voce: "Sono loro i colpevoli di questa situazione per cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti! Ora bisogna rimediare al malfatto".
Al mattino, quando ancora c'è qualche speranza di ricomposizione della maggioranza, Draghi entra sorridente a Palazzo Madama. E' circondato dai suoi ministri, stringe mani, si concede un caffè. Ma la giornata, già dopo le comunicazioni che pronuncia davanti ai senatori, inizia a prendere un'altra piega.
Il suo discorso non è conciliante come qualcuno si aspettava, è fermo, non fa sconti. Da un lato ripropone un nuovo patto di coalizione, dall'altro mette paletti ben precisi, un vero e proprio programma per poter andare avanti. Dal Pnrr che bisogna portare avanti a tappe serrata con le riforme, fino ai provvedimenti per sostenere famiglie e imprese. Prima di iniziare, un difetto dell'amplificazione lo interrompe per pochi secondi: "Io credo che ci sia qualcosa che non funzioni". Una volta risolto, Draghi è un fiume in piena. Spiega perché la scorsa settimana - dopo il non voto dei pentastellati sulla fiducia sul dl Aiuti - ha rassegnato le dimissioni, racconta il passaggio al Colle e rilancia l'agenda per proseguire l'impegno a Palazzo Chigi.
Al Senato, i primi interventi dei 5 stelle, le reazioni piccate del centrodestra continuano a segnare la rotta della giornata. La telefonata con Silvio Berlusconi, i contatti con esponenti del Pd, il ponte tentato dai dem e LeU con il Movimento servono a ben poco. Al termine del dibattito si tenta l'ultima mediazione: una sospensione della seduta per trovare la sintesi in extremis, in cui Draghi torna a Palazzo Chigi. In un'ora e mezza, dalle 15.30 alle 17 circa, si intensificano i contatti a tutti i livelli: è l'ultimo spiraglio. In questo arco temporale è plausibile che Draghi abbia sentito anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il quale - secondo quanto riferiscono ambienti parlamentari - avrebbe, a sua volta, avviato delle consultazioni telefoniche con i leader della maggioranza per fare il punto della situazione.
Ma nulla si smuove: i 5 stelle e il centrodestra restano sulle loro posizioni, peraltro distantissime. Quando Daghi rientra a Palazzo Madama per la replica, i giochi sono fatti. Draghi ha un altro piglio, più duro, determinato alla resa dei conti. L'intervento spiazza diversi parlamentari che nei capannelli commentano: "Mai visto così". Il redde rationem si concretizza nella richiesta di fiducia su una risoluzione scarna, presentata da Pier Ferdinando Casini in cui si chiede di approvare le sue comunicazioni.
Tanti eletti gli si avvicinano, qualcuno suggerisce di andarsi a dimettere prima della votazione. Alla fine, il presidente lascia l'Aula alle 19.30. A questo punto, chi lo incontra lo descrive sorridente, rilassato. Il dado è tratto, forse la tensione è calata. Dopo poco, arriva l'ora della verità: la fiducia passa ma con soli 95 voti, Lega, Fi e M5s non votano.
Giovedì le dimissioni alla Camera, al voto ad ottobre - Secondo round alle 9 di giovedì alla Camera per Mario Draghi. Il premier non è stato formalmente sfiduciato in Senato (sono stati 95 i sì e 38 i no) e per concludere l'iter della parlamentarizzazione - così come chiesto dal capo dello Stato, Sergio Mattarella - ascolterà il dibattito anche a Montecitorio e molto probabilmente salirà al Quirinale dopo aver ottenuto la fiducia nel secondo ramo del Parlamento.
A questo punto la palla passerà a Mattarella che potrebbe prendersi qualche ora - o giorni - di riflessione e dopo aver incontrato i presidenti Roberto Fico e Elisabetta Alberti Casellati - come prevede la Costituzione - scioglierà le Camere. Sarà il governo, poi, a decidere la data delle elezioni che dovranno tenersi tra i 60 e 70 giorni dallo scioglimento del parlamento. La data più probabile potrebbe essere quella del 2 o del 9 ottobre, visto che il 25 settembre si celebra il capodanno ebraico.