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Quirinale, il cappotto usato di De Nicola e il bastone di Einaudi

I simboli e gli aneddoti legati all'elezione del Presidente della Repubblica

29 Gen 2015 - 10:58
 © ufficio-stampa

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Dal bastone di Luigi Einaudi all'abito bianco di Sandro Pertini: l'elezione del presidente della Repubblica è stata spesso legata a simboli e aneddoti. Ecco le storie più divertenti o famose.

Il cappotto di De Nicola - Dopo aver rifiutato l'appannaggio presidenziale (12,5 milioni delle vecchie lire) Enrico De Nicola (primo presidente nel 1948) mantenne uno stile di vita estremamente modesto. Tanto da indossare un cappotto rivoltato, sempre lo stesso, a tutte le cerimonie ufficiali. I collaboratori provarono a farglielo sostituire ma lui accettò soltanto di farlo riparare. E quando il sarto di Napoli non volle essere pagato, si arrabbiò moltissimo.

Il presidente con il bastone - Luigi Einaudi (1948-1955) non voleva accettare la candidatura propostagli da Giulio Andreotti all'alba: "Ma De Gasperi lo sa che io porto il bastone? Come farei a passare in rassegna i reparti militari ?" fu la sua risposta. Andreotti ribatté: "Non si preoccupi, mica deve andare a cavallo: al giorno d'oggi ci sono le automobili".

L'eletto a sua "insaputa" - Giovanni Leone (1971-1978) fu informato dell'elezione mentre era a casa con la bronchite.

Total white dress - Si racconta invece, che Sandro Pertini (1978-1985) invece ci tenesse proprio a "scalare" il Colle. Tanto da adottare un espediente "modaiolo". Per distinguersi dagli altri "papabili" iniziò a vestirsi con abiti molto chiari. E a chi gli contestava un'età troppo avanzata per ricoprire una carica settenale rispondeva: "Mia madre è morta a 90 anni perché è caduta dalla sedia. Mio fratello a 94. Anche mi padre ha superato i 90. E sono rimasti tutti lucidi fino alla fine. Se non vogliono votarmi cerchino un'altra scusa."

Un assistente troppo sensibile - Antonio Segni fu presidente solo per due anni e mezzo (dal 1962 al 1964, quando diede dimissioni volontarie). Si racconta che il suo giovane assistente svenne nel corridoio quando seppe dell'elezione. Si trattava del giovanissimo Francesco Cossiga.

Mai far arrabbiare la stampa - Fanfani commise l'errore di accusare il cronista Vittorio Gorresio di non dire nei suoi articoli tutta la verità: "Li tagliano i suoi padroni" gli disse. Gorresio replicò che i suoi padroni erano i lettori e che i suoi pezzi li tagliavano, se erano lunghi, i tipografi della "Stampa". Tutto ciò valse al candidato l'ostilità dei giornalisti e l'antipatia dei lettori. Il giornale torinese rispose con una nota di tre righe. "Il linguaggio del senatore Fanfani non si addice a un presidente, anche solo del Senato". Il giorno dopo Fanfani abbandonò la sua candidatura a Presidente.

Le leggende sui "franchi tiratori" - Il voto segreto è sempre stata la fossa degli accordi tra i partiti. Per contenere e controllare la presenza dei cosiddetti "franchi tiratori" nelle proprie fila, la Democrazia cristiana adottò due espedienti: l'uso della penna rossa o della matita per esprimere la preferenza, e la citazione del titolo accademico o politico (professore, senatore, presidente eccetera). E per scoraggiare le "mine vaganti" più imprevedibili, si ricordava come un dogma la massima di Giulio Andreotti, il politico che ha eletto undici presidenti della Repubblica: "Non c'è nessun metodo che garantisca la vittoria. Ci sono solo errori da non commettere".

Il tradimento dei 101 - Nel 2014, alla quarta votazione quando è richiesta la sola maggioranza assoluta dei componenti dell'assemblea,Il PD e SEL lanciarono la candidatura di Romano Prodi, osteggiata da tutto il centrodestra che decide di non partecipare alla votazione. La candidatura non viene condivisa neanche dal Movimento 5 Stelle, che continua a votare Rodotà, e dai montiani, che propongono invece la candidatura del Ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri. Il Professore raggiunse alla quarta votazione solo 395 voti, evidenziando così la presenza di almeno 101 franchi tiratori all'interno dell'alleanza di centrosinistra. Peraltro anche se quei 101 voti fossero andati a Prodi, portando i consensi per quest'ultimo a 496, non sarebbero stati sufficienti a determinarne l'elezione, visto che il quorum era fissato a 504 voti. Prendendo atto della disfatta, la sera del 19 aprile anche Prodi ritirò la propria disponibilità, Rosy Bindi si dimise da presidente del PD e Pier Luigi Bersani annunciò le dimissioni dall'incarico di segretario.

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