L'ESCLUSO

Bearzot avrebbe portato il suo Pepito

La colpa maggiore di Giuseppe Rossi: essere nato in un'epoca sbagliata

01 Giu 2014 - 22:35
 © SportMediaset

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Enzo Bearzot è andato via e ha portato con sé un modo di intendere il calcio e il ruolo di allenatore, meglio, di commissario tecnico della Nazionale. Un modo che prevedeva gli uomini e non solo i calciatori, che non riponeva mai nel cassetto il talento per mettere a centrotavola i muscoli o i nomi di moda. E proprio grazie a questo credo, a questa filosofia, scrisse in un oceano di scetticismo e critiche la storia dell'Italia 1982 e del Rossi di allora, Paolo. Portato contro ogni apparente logica al Mondiale, fermo - ma realmente fermo - da oltre due anni per squalifica, in condizioni psicofisiche palesemente precarie. Ma Bearzot, - ha raccontato poi lui stesso - sapeva benissimo quanto la sua squadra avesse bisogno del suo guizzo, del suo senso del gol, persino del suo sapere stare al suo posto in quel gruppo plasmato a meraviglia dal c.t. con la pipa. Come è finita in quel luglio 1982 lo sappiamo tutti, anche chi ancora non c'era.

Bearzot, prima di lasciarci qui, fece in tempo a vedere il Rossi di oggi: e fu lui, anziano mahatma del pallone, a coniarne il soprannome, Pepito, perché semplicemente gli ricordava il suo pupillo ben al di là dell'omonimia. Ma Pepito è nato nel 1987, ed è finito nel calderone di un altro modo di calcio, di altri credo, di logiche sempre e comunque votate a uno spietato e presunto pragmatismo. Un modo al quale non si sottrae nemmeno Cesare Prandelli, alla faccia del suo - a volte un po' troppo - ostentato "volto umano", della sua ben comunicata sensibilità. L'anima di Giuseppe Rossi è stata fin troppo violentata, negli ultimi anni, tra dolori privati e pubblici, inteso come impressionante sequela di infortuni che lo hanno sempre ri-sbattuto al piano terra dopo avere finalmente raggiunto il top. Per quanto riguarda i Mondiali, aveva già conosciuto l'amarezza del taglio all'ultimo secondo nel 2010: e ci rimase molto male come è comprensibile. Prandelli tutto questo avrebbe dovuto tenerlo in considerazione: e semplicemente, se non si fidava del recupero di Pepito dall'ultima legnata, lasciarlo fuori da subito. Perché il caso di Rossi è troppo particolare, e meritava un'eccezione: insomma, se lo chiami tra i 30 ci credi, fino alla fine, rischiando, lavorando ogni giorno sul suo fisico e - soprattutto - sulla sua mente. Lo abbiamo visto tutti, contro l'Irlanda: fuori dal gioco, timido, sceso evidentemente in campo con la paura - diventata terrore dopo la botta di Montolivo - di rifarsi male proprio quando il rettilineo del traguardo brasiliano si stava materializzando. La controprova, purtroppo, non l'avremo mai: ma al Mondiale, nell'appuntamento inseguito disperatamente e finalmente raggiunto, Rossi sarebbe stato Pepito, spinto dalla benzina del talento, della voglia di esserci, di assaggiare finalmente qualcosa di dolce dopo mille bocconi amari. Spinto da un c.t. che gli dicesse "tu giochi, credo in te, aiutaci a vincere" contro tutto e tutti, come si sentì dire Pablito Rossi nelle difficili giornate di Vigo. A Bearzot piaceva molto Pepito Rossi. Sapeva riconoscerli, i calciatori. E ancora di più gli uomini.

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