A Tgcom24 il dottor Massimo Locatelli, responsabile del Servizio di Medicina di Laboratorio dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano
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Con l’avanzamento delle conoscenze sulla pandemia da Covid-19 e sul virus SARS-Cov-2, diventano sempre più specifici ed efficaci anche gli strumenti che abbiamo a disposizione per misurare la quantità e la tipologia di anticorpi prodotti dal nostro sistema immunitario in risposta al nuovo coronavirus, sia a seguito di infezione pregressa sia tramite vaccinazione. Ad oggi in commercio sono diversi i test sierologici quantitativi che i cittadini possono richiedere, ma è importante fare chiarezza sulla specificità di ognuno per capire meglio che informazioni ci rivelano e quando vanno effettuati. Ne parliamo con il dottor Massimo Locatelli, responsabile del Servizio di Medicina di Laboratorio dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano.
Test sierologico per gli anticorpi SARS-Cov-2-RBD. Si tratta di un nuovo test sierologico che, a differenza di quelli classici, è in grado di cercare in maniera specifica esclusivamente gli anticorpi potenzialmente neutralizzanti, presenti sia in risposta all’infezione sia alla vaccinazione. Gli anticorpi RBD sono una particolare categoria di anticorpi che sappiamo essere efficaci nel combattere l’infezione, poiché riconoscono nello specifico una regione relativamente piccola (definita RBD, Receptor Binding Domain) della proteina Spike, ossia quella regione che permette al virus di agganciarsi alle cellule e infettarle. Dopo aver individuato la porzione RBD, questi anticorpi ci si legano e impediscono così al virus di usarla per penetrare nelle nostre cellule.
“Questo tipo di anticorpi sono quelli più efficaci nel proteggerci dall’infezione, anche se non sappiamo ancora con certezza per quanto tempo rimangano in circolo. Poiché sono esattamente gli anticorpi che vengono stimolati dai vaccini per il Covid-19, possono essere utilizzati per valutare e monitorare nel tempo la loro efficacia,” spiega il dottor Locatelli. "Al momento purtroppo, data la rapidità con cui si sono evoluti, lo sviluppo di questa tipologia di test non è ancora standardizzata. Al San Raffaele seguiamo le linee guida definite dall’OMS, ma non è così ovunque e potrebbe darsi – perlomeno in questa fase – che test sierologici effettuati in cliniche e ospedali diversi possano dare a loro volta risultati diversi,” conclude l’esperto.
Test sierologici degli anticorpi aspecifici. Gli esami sierologici classici invece, a differenza di quelli anti-RBD, individuano in maniera aspecifica gli anticorpi che riconoscono o la proteina Spike nella sua interezza o il nucleocapside del virus (la sua parte interna). La risposta anticorpale al nucleocapside, in particolare, è tipica esclusivamente di coloro che hanno contratto l’infezione in modo naturale. I vaccini attualmente approvati infatti espongono al sistema immunitario solo la regione RBD della proteina Spike, e non altre strutture proteiche del virus, come, appunto, il nucleoclapside. Ecco perché cercando gli anticorpi per il nucleocapside, anche chi è già vaccinato potrebbe scoprire se – prima della vaccinazione – ha contratto o meno l’infezione.
La memoria immunologica oltre gli anticorpi. I test sierologici consentono di misurare gli anticorpi in circolo nel sangue, che permettono al nostro sistema immunitario di difendersi in modo particolarmente rapido ed efficace di fronte ad agenti patogeni che abbiamo già incontrato. Va ricordato tuttavia che la nostra memoria immunitaria non si limita alla presenza degli anticorpi in circolo: accanto a questi, non bisogna dimenticare la memoria cellulare, che ha un ruolo fondamentale nella risposta contro SARS-Cov-2 in caso di un nuovo incontro con il virus. Alcuni recenti studi - come quello pubblicato su Science lo scorso febbraio - hanno dimostrato infatti che, sebbene la persistenza degli anticorpi diminuisca nel corso dei mesi, la memoria immunologica da parte delle cellule B della memoria (specifiche per la proteina Spike di SARS-Covd-2) e dei linfociti T perdura più a lungo nel tempo, fino almeno a 8 mesi dall’infezione e probabilmente per diversi anni (sulla base di quanto successo con l’epidemia della SARS).