A 40 anni dal sisma

Indro, l'Irpinia e quell'inchiesta che terremotò la politica

L'editoriale del Direttore del Tgcom24 Paolo Liguori, in edicola oggi sul Giornale

29 Nov 2020 - 12:06
 © Ansa

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Il 23 novembre 1980 un sisma di magnitudo 7 della scala Richter devasta l’Irpinia. Il bilancio è tragico: 2.914 morti, 8.850 feriti, oltre 280mila gli sfollati. Abbiamo ricordato proprio questa settimana l’anniversario, ma per i lettori del Giornale quel terremoto divenne anche, otto anni dopo, lo scandalo conosciuto come "Irpiniagate" e lo scontro epico tra il direttore Indro Montanelli e il segretario della Dc, presidente del Consiglio e ancora oggi sindaco di Nusco Ciriaco De Mita.

Fui testimone e protagonista di quegli eventi e, dopo tanti anni, mi piace ricordarli. Diciamo subito che gli aiuti, all’inizio stentati e in ritardo, diventano una vera pioggia di miliardi: 63 stabilì dieci anni dopo una Commissione parlamentare presieduta da Oscar Luigi Scalfaro. La pioggia d’oro scatena gli interessi di banchieri, imprenditori, politici, stravolge il tessuto economico preesistente, creandone uno nuovo.

Otto anni dopo il terremoto, contro De Mita, diventato il politico democristiano più potente della storia (sommava contemporaneamente le cariche di capo del governo e segretario della Dc, mai successo prima), Indro Montanelli scrisse un editoriale molto forte, proprio nello stesso spazio che state leggendo ora: lo titolò «Il Padrino», sostenendo che il capo di una corrente democristiana si era impadronito dello Stato, mettendo ai posti di potere moltissimi suoi amici irpini: dal senatore Nicola Mancino al ministro Salverino De Vito, da Giuseppe Gargani ad Angelo Sanza. Una fitta rete di poteri, tutti collegati dall’appartenenza alla vecchia corrente di Base dell’ex ministro Fiorentino Sullo e da amicizie personali e familiari di vecchia data. Era l’Irpinia - una zona abbastanza ridotta - al vertice dell’Italia, con i mezzi arrivati dopo il terremoto.
 

De Mita querelò Montanelli e sono sempre stato convinto che lo fece soprattutto perché era certo che l’attacco proveniva dall’interno della Democrazia Cristiana e, alla fine, avrebbe trovato un accordo con il direttore. Ma Montanelli prese la querela come un insulto personale insopportabile e incaricò i suoi giornalisti di trovare sul posto le prove di un esercizio distorto del potere. E così, ai primi di novembre del 1988, fui mandato a Napoli e in Irpinia, per un’inchiesta che fu pubblicata in cinque puntate dal Giornale, dal 19 al 27 novembre.

Diciamo subito che fu un lavoro molto fortunato perché non avevamo alcuna informazione specifica in partenza: non c’erano documenti, intercettazioni, non esisteva neppure un’indagine della magistratura. Nessuno sognava di aprire neppure lontanamente un punto interrogativo su come venivano spesi soldi che arrivavano. Provai, come è logico, ad informarmi in casa Dc, ma la stragrande maggioranza era demitiana, e gli avversari, come Cirino Pomicino, si guardavano bene da fare passi falsi: in quei mesi erano terrorizzati dall’enorme potere in mano ad un unico gruppo. Anche nell’informazione tirava un’aria molto particolare: l’efficientissimo Clemente Mastella, consigliere del segretario per i rapporti con la stampa, riuniva ogni giorno i giornalisti di tutte le principali testate per offrire un cappuccino e indirizzarli sui fatti del giorno. E si era creato un rapporto di fiducia anche personale. Niente aiuti, dunque, però il protettore dei cronisti esiste sempre e, nel mio caso, furono tre coincidenze straordinarie ad aiutarmi.

La prima fu lo scontro nel Pci, con la corrente maggioritaria che faceva capo a Napolitano e collaborava con De Mita e il dissidente Antonio Bassolino che aveva idee di opposizione e mi presentò suoi collaboratori preziosissimi ad Avellino. La seconda fortuna fu un collega dell’Espresso, Locatelli, che aveva tutta la documentazione dei passaggi di denaro e di azioni della Banca Popolare dell’Irpinia, sulla quale fece un libro. E poi i rapporti con due miei coetanei: il giovane democristiano Gianfranco Rotondi, che mi spiegò tutta la storia della Dc irpina e i rapporti tra loro, e il giornalista dell’Unità Enrico Fierro, preziosissimo per la mappa delle anomalie economiche.

Così nacque e si sviluppò l’Irpiniagate, senza trame, né complotti. E fu una sequenza di finti insediamenti industriali, di fabbriche di barche ubicate in montagna, di una banca con gli azionisti bambini, figli di notabili, intrecci di parentele incredibili: uno spreco si direbbe? No, un investimento di potere. Ma la pubblicazione dell’inchiesta non bastò, una cappa di silenzio circondava IlGiornale. Fu decisiva un’interrogazione parlamentare del radicale Calderisi e la svolta politica dell’ allora direttore dell’ Unità Massimo D’Alema, che titolò in prima pagina: «De Mita si è arricchito coni soldi del terremoto?».

Non era vero, ma era un segnale politico e fu istituita una Commissione d’inchiesta parlamentare. Risultato: De Mita assolto, la ricostruzione incompleta per anni, gli atti della Commissione confermarono decine di irregolarità e colpe gravi, quel gruppo di potere passò la mano nella Dc. Indro Montanelli fu blandamente condannato per «Il Padrino», ma mai fummo querelati sui fatti.

A Ciriaco De Mita una dedica affettuosa: è meglio un avversario grande ma leale (Indro) che cento amici tiepidi.

Paolo Liguori

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