Il colpo di coda finale riscatta almeno in parte cinque serate dove tutto è andato come doveva andare, senza scossoni, clamori e polemiche. Tutto in stile Carlo Conti. Anche se....
di Domenico Catagnano© agenzia
La vittoria degli Stadio è stata la massima trasgressione che questo Festival di Sanremo si è potuto (e voluto) permettere. Il colpo di coda finale riscatta almeno in parte cinque serate dove tutto è andato come doveva andare, senza scossoni, clamori e polemiche, se si eccettua quella, alla camomilla, della votazione sballata sui primi due artisti della categoria Giovani. Tutto nello stile Carlo Conti: lineare, rassicurante, evocativo, prevedibile, abbronzato, ma non necessariamente noioso.
E' come se nel carrozzone del presentatore più amato della tv ognuno avesse avuto un ruolo assegnato, diligentemente interpretato e con gli effetti sorpresa ridotti al minimo.
Per dire, Virginia Raffaele doveva far ridere con intelligenza e lo ha fatto; Madalina Ghenea doveva essere la bellezza dell'Ariston e lo è stata; la meravigliosa storia di Ezio Bosso doveva commuovere l'Italia e così è andata; gli Elii dovevano inventarsi qualcosa sul palco e invenzione fu; Irene Fornaciari doveva far quella che come il padre non ha fortuna al Festival e le è riuscito benissimo; Enrico Brignano doveva confermarsi il comico che è sempre stato e ovviamente si è confermato; Laura Pausini, Pooh, Eros Ramazzotti, Renato Zero, financo Cristina D'Avena dovevano far sentire il profumo dell'amarcord e il profumo si è sprigionato. E via così.
Disinnescando tutte le potenziali cariche che potevano turbare la placida quiete di ogni singola esibizione sul palco, Carlo Conti e la sua squadra di autori hanno pensato allo show come fosse una ricetta dove se sbagli a dosare un ingrediente la bontà del piatto va a farsi benedire. Basti pensare a come è stato sedato il tanto temuto Elton John, che sembrava avesse tra le mani le sorti del ddl Cirinnà. E, giusto per rimanere in tema, il nastrino arcobaleno era solo il minimo sindacale e nulla più per chi voleva dire qualcosa su unioni civili e dintorni. Gesto importante, certamente, ma sostanzialmente innocuo.
Se vogliamo il più rivoluzionario è stato lo spernacchiato Gabriel Garko, che alla fine è sceso dall'Ariston con una doppia soddisfazione. Innanzitutto quella di aver strappato un signor cachet, superiore -da quel che si mormora- a quello della Raffaele: difficile capire in che maniera chi gestisce i budget abbia distribuito pesi, qualità e misure. E ancora quella di essere stato se stesso e di aver trasformato i suoi limiti in un punto di forza. Era a Sanremo per fare il valletto-soprammobile (ruolo solitamente femminile) e, capendo di essere totalmente inadeguato anche per quello per cui era stato chiamato, ha sfoderato una notevole dose di autoironia. "Spigliato Garko, mi ricorda un pioppo che avevo un giardino", ha detto di se stesso leggendo uno dei migliaia di tweet che lo perculavano, è stato allo scherzo quando Nino Frassica lo demoliva nell'intervista doppia, ha giocato molto sul fatto di non saper leggere il gobbo, di non saper recitare, di dimenticare parti di scaletta. E' stato preso in giro da tutti e non si è curato di correggere i propri difetti, anzi, li ha caricati. E' riuscito nell'impresa di risultare anche simpatico, quando bastava facesse l'homme fatale.
Alla fine è stato lui l'unica mina vagante del favoloso mondo di Carlo Conti, un mondo nel quale tutto riga dritto, l'improvvisazione è un esplosivo da maneggiare con molta cura e dove si riesce nel miracolo di mantenere vive e interessanti ben cinque serate-fiume inconcepibili nella moderna televisione. Perché il quadro risultasse perfetto sarebbe servito un vincitore "sanremese" come l'anno scorso erano stati i tenorini del Volo. Sembrava fatta per il duo Caccamo- Iurato, favoritissimi alla viglia, deludenti alla prova dei fatti. La loro canzone non aveva neanche la forza e il fascino perverso della "bruttezza" tutta festivaliera che in passato ha decretato parecchi vincitori. E sono spuntati gli Stadio, già calimeri dell'Ariston (due ultimi posti con canzoni non disprezzabili negli anni '80) e inaspettatamente catapultati in una seconda giovinezza. Non è andata come si prevedeva, ma Carlo Conti è riuscito lo stesso a trovare al suo ingessatissimo Festival un lieto finale.