Le ipotesi degli studiosi sui casi delle persone che non si infettano anche se a contatto ravvicinato e duraturo con un positivo
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Il marito è positivo al coronavirus, la moglie però non si contagia nonostante vivano sotto lo stesso tetto e per giorni la donna si sia presa cura di lui. Di casi come quelli riportati dal Messaggero - che ha per protagonisti Alessandro e Valeria, una coppia di ternani residenti a Milano - ne sono stati segnalati svariati in tutto il mondo, tanto da spingere oltre 250 laboratori in tutto il mondo, coordinati dalla Rockfeller University di New York ad indagare.
"Quando c'è una pandemia i fattori in gioco sono il patogeno, l'ospite e l'ambiente, ossia il contesto in cui si sviluppa l'infezione - spiega al quotidiano romano Giuseppe Novelli, genetista del policlinico Tor Vergata di Roma e presidente della Fondazione Giovanni Lorenzini di Milano - Noi ci siamo concentrati sulla seconda. Studiamo il dna delle persone, facciamo correlazione statistica in base all'età e al sesso".
"Ci siamo prima concentrati sui malati gravi - spiega ancora Novelli - e abbiamo scoperto che esiste un 10-12% di casi che hanno una caratteristica genetica particolare, non riescono cioè a produrre interferone che è la prima molecola di difesa". Partendo da queste evidenze lo studio si è spostato anche sulle altre differenze genetiche dei soggetti resistenti al virus, quelli che non si ammalano né si infettano per natura.
"L'immunità non è data solo dagli anticorpi - spiega al Messaggero Roberto Luzzati, professore di malattie infettive dell'Università di Trieste - esiste anche l'immunità cosiddetta cellulare". In questo caso è indispensabile studiare i linfociti. "Noi abbiamo la cosiddetta immunità cellulo-mediata nella quale - continua Luzzati - entra in gioco il sistema immunitario cellulare che poi è quello che mantiene la memoria nel tempo, molto più a lungo degli anticorpi che possono anche scomparire".