Dopo la flessione registrata negli anni della pandemia tornano a crescere le partenze. Velocità nel trovare un’occupazione adeguata, offerte migliori e stipendi nettamente più alti fanno la differenza.
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Si parte in cerca di maggiore soddisfazione personale. Il più delle volte la si trova. E per questo quasi sempre non si vuole tornare. Il fenomeno dei “cervelli in fuga” - giovani con un elevato livello di formazione che scelgono di andare a vivere e lavorare all’estero - torna a spaventare il sistema Italia.
Dopo una lieve flessione negli anni della pandemia, l’esodo dei nostri ragazzi sta riprendendo a ritmi elevati: secondo l’ultimo rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati, concentrandoci su chi ha ottenuto un titolo di secondo livello - magistrale biennale o a ciclo unico, concludendo dunque il percorso accademico standard - a un anno dalla laurea (titolati del 2022) il 4% degli occupati svolge il proprio lavoro all’estero; che diventano il 5,5% a cinque anni dal titolo (laureati 2018).
Possono sembrare cifre esigue, ma nei fatti si traducono in migliaia di persone che lasciano il nostro Paese. Ma, come segnala un approfondimento del report effettuato dal portale studentesco Skuola.net, è soprattutto un altro il dato che deve lasciar pensare. Cioè quello, già introdotto, che vede solo una minima percentuale di questi giovani avere in programma un rientro alla base: il 38,4% degli occupati all’estero ritiene tale scenario molto improbabile (quota in crescita del +1,2% rispetto a quanto rilevato nell’analoga rilevazione del 2022) e un ulteriore 30,5% (-1,3 punti percentuali) poco probabile, quanto meno nell’arco dei prossimi cinque anni. Complessivamente, dunque, oltre 2 su 3 stanno pianificando il proprio futuro lontano da casa.
Solo il 15,1% (valore in calo dell’1,7% da un anno all’altro) ritiene il rientro nel nostro Paese molto probabile. Mentre il 14,7% non è in grado di esprimere un giudizio (+0,6 punti percentuali tra il 2022 e il 2023).
Perché così tanti giovani laureati se ne vanno?
I motivi della “fuga”? E' presto detto e si possono sintetizzare in tre concetti-chiave: maggiori e migliori opportunità di lavoro, velocità nella ricerca di un’occupazione stabile, stipendi nettamente più alti.
Partendo da quest’ultimo aspetto, che probabilmente è quello decisivo, i numeri parlano chiaro: già dopo un anno dalla laurea, chi lavora all’estero percepisce una retribuzione media di 2.174 euro mensili netti, il +56,1% di quanto, a parità di condizioni, gli entrerebbe in Italia, ovvero 1.393 euro al mese.
E a cinque anni dall’uscita dall’università il differenziale retributivo aumenta ulteriormente, con uno stipendio che si attesta sui 2.710 euro mensili, +58,7% rispetto ai 1.708 euro degli occupati in Italia.
Anche i tempi di inserimento nel mercato del lavoro, però, hanno un ruolo importante. Chi è occupato all’estero ha trovato quell’impiego molto più rapidamente rispetto a coloro che lavorano in Italia: i tempi medi di reperimento del primo lavoro sono pari, rispettivamente, a 5,4 mesi e 7,3 mesi. Niente di eccezionale ma comunque in grado di spostare l’ago della bilancia verso la partenza.
E poi c’è una questione puramente pratica, di effettive prospettive lavorative: il 32,0% dei laureati di secondo livello, a cinque anni dal conseguimento del titolo, ha dichiarato di aver lasciato il nostro Paese avendo ricevuto l’offerta più interessante, tra quelle valutate, proprio da parte di un’azienda che ha sede all’estero. A cui si aggiunge un ulteriore 27,4% che si è trasferito per mancanza di opportunità di lavoro adeguate in Italia. Circa 6 giovani su 10, dunque, non partono a cuor leggero ma per una sorta di incapacità della loro nazione d’origine di trattenerli.
A tutto questo vanno, infine, aggiunti i fattori psicologici. I laureati che lavorano fuori dai nostri confini, infatti, sono tendenzialmente più soddisfatti dei lavoratori “italiani” praticamente su ogni aspetto. In particolare, a cinque anni dalla laurea, le differenze più consistenti riguardano: le opportunità di contatti con l’estero (su una scala da 1 a 10 chi è espatriato le valuta 8,6 mentre chi è rimasto si ferma a 5,4), le prospettive di guadagno e quelle di carriera (per entrambi gli aspetti il voto è 7,9 contro 7,2, a favore dell’estero), la flessibilità dell’orario di lavoro (7,7 vs. 7,1), il prestigio che si riceve dal lavoro (8,0 vs. 7,6), l’acquisizione di professionalità (8,4 vs. 8,0) e il tempo libero (7,1 vs. a 6,7).
Qual è il profilo dell'expat tipo
Ma qual è l’identikit dei “cervelli in fuga” di ultima generazione? Innanzitutto, la propensione alla partenza si riscontra, seppur di poco, di più negli uomini che nelle donne: tra i laureati del 2022, dopo un anno, la quota di occupati all’estero è del 4,7% tra i maschi e del 3,5% tra le femmine (+1,2% a favore dei primi). Una distanza che, inoltre, si allarga nel tempo: a cinque anni dal titolo, il differenziale arriva a +2,3 punti, con il 6,8% dei ragazzi occupati all’estero e solo il 4,5% delle ragazze che fanno lo stesso.
Si evidenzia, poi, una maggiore propensione a varcare i confini nazionali tra coloro che provengono da contesti socio-culturali ed economici favoriti: considerando ad esempio i laureati del 2018 a cinque anni, lavora all’estero il 6,9% di chi ha almeno un genitore laureato rispetto al 4,8% di chi ha genitori non laureati.
Inoltre, tendono a spostarsi più frequentemente all’estero coloro che risiedono e hanno studiato al Nord (sempre tra i laureati a cinque anni, 6,6% rispetto al 3,0% di quanti hanno studiato al Sud) e quanti, già durante l’università, hanno avuto esperienze di studio al di fuori del proprio Paese (15,9% rispetto al 3,2% di chi non ha svolto tali esperienze).
I settori e le nazioni che attraggono di più i nostri laureati
Anche se bisogna dire che non tutte le lauree spingono al trasferimento allo stesso modo. Le più incentivanti, ossia quelle con le percentuali più elevate di occupati all’estero, sono soprattutto quelle dei gruppi: scientifico (8,2% tra gli occupati a un anno e 11,7% tra quelli a cinque anni), linguistico (rispettivamente 8,2% e 11,3%), informatica e tecnologie ICT (7,9% e 13,7%), politico-sociale e comunicazione (5,9% e 7,7%), ingegneria industriale e dell’informazione (5,8% e 10,1%).
Per concludere, sembra opportuno dare uno sguardo alla distribuzione di questi “emigrati”: Praticamente tutti (90,1%) lavorano in Europa. Dirigendosi, in particolare, verso il Regno Unito (14,3%), la Germania (14%), la Svizzera (12,8%), la Francia (8,8%) e la Spagna (8,7%). Il 5,2% è andato Oltreoceano, stabilendosi nel continente americano; il 2,7% si è trasferito in Asia. Africa e Oceania, al momento, ancora risultano mete residuali.