Tra Neet, disoccupati e stagisti c’è chi alla fine un lavoro lo trova. Ma, spesso, quello che aspetta le ragazze e i ragazzi sono contratti part-time e retribuzioni basse. Lo dicono praticamente tutti gli indicatori
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Il Primo Maggio i giovani hanno ben poco da festeggiare. La Festa dei Lavoratori per molti di loro corrisponde più a una aspirazione, meglio se con maggiori diritti e un salario soddisfacente. In Italia, infatti, essere giovani non paga, in tutti i sensi. E la pandemia su questo, di certo, non ha aiutato. Una situazione che viene periodicamente confermata da dati e rapporti dei vari istituti di ricerca, nazionali e internazionali, che studiano il fenomeno dell’occupazione - o disoccupazione - giovanile. Il portale Skuola.net ha tracciato una panoramica, esaminando quegli elementi che determinano la condizione lavorativa delle nuove generazioni in Italia, analizzando l’ultimo Osservatorio Cida - svolto in collaborazione con Adapt (Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del lavoro e sulle Relazioni industriali) - che prende in considerazione dati Istat ed Eurostat, e il più recente rapporto Censis.
Un paese che invecchia: 1 milione di giovani in meno in 10 anni e sempre meno lavoratori effettivi
Secondo questa elaborazione, negli ultimi dieci anni la numerosità della popolazione dai 25 ai 34 anni si è ridotta notevolmente, passando dai 7.459.000 giovani del 2010 ai 6.453.000 del 2020. Un forte invecchiamento della popolazione, nel nostro Paese, che ha avuto anche un impatto dal punto di vista economico e sociale. Questo viene rappresentato in maniera evidente dal rapporto dell’old-age dependency ratio, cioè il rapporto tra persone in età lavorativa (tra i 15 e i 64 anni) e quelle che non lo sono più (over 65). Nel 2020, in Italia, tale rapporto era circa del 40%: in pratica, ci sono meno di 3 adulti in età lavorativa per ogni persona over 65. Se a questo si aggiunge il fatto che abbiamo un tasso di occupazione del 58%, il risultato è che ci si avvicina verosimilmente a un rapporto 1 a 1 tra lavoratori effettivi e persone over 65. Un dato destinato a crescere ulteriormente: secondo le proiezioni Eurostat per il 2050, nella maggior parte delle nostre Regioni per quella data si supererà il 70%.
Più preparati degli adulti, ma il livello è inferiore alla media europea
Inoltre, se a un maggiore livello di istruzione in molti casi corrisponde un futuro lavorativo migliore, di certo in Italia si può fare di più. Sono i numeri di Giovani.stat a dirci che, nel 2020, circa il 42% dei giovani italiani tra i 25 e i 34 anni possiede solo il diploma di Maturità, a cui si somma il 6% che, invece, ha ottenuto un diploma professionale (da 2 o 3 anni). Pochissimi, ma ci sono, hanno solo la licenza di scuola elementare (1,68%); più alti i numeri di chi ha, come titolo di studio, la sola licenza media (21,40%). Chi invece ha concluso un percorso di laurea o post laurea è circa il 29%, un numero tra i più bassi di Europa. Numeri sicuramente migliori del resto della popolazione: una magra consolazione.
Ma la piaga che forse più delle altre condiziona il futuro dei giovani italiani è quella dell’abbandono scolastico. Considerando i dati relativi all’abbandono prematuro degli studi, nel 2020, in Italia esso riguarda il 15,6% dei maschi e il 10,4% delle femmine tra i 18 e i 24 anni (dati Istat). L’area territoriale con la più alta percentuale di abbandono è il Mezzogiorno, dove coinvolge il 16% dei giovani, il 19% dei maschi e il 13% delle femmine, seguito dal Nord-Ovest e dal Centro.
Tra scuola e lavoro ci sono i Neet: siamo i “campioni d’Europa” tra i 25 e i 29 anni
Molto citato, qualche volta a sproposito altre volte meno, è l’acronimo Neet, che si riferisce ai giovani non occupati e che non stanno neanche svolgendo esperienze formative. Il fenomeno, per la fascia di età 15-34 anni, nel 2020 ha registrato un'incidenza del 25,1% in tutta Italia (Giovani.stat). La regione con la più alta percentuale è la Sicilia (41% di giovani inoccupati), seguita da Campania (38,7%), Calabria (38,4%), Puglia (32,9%) e Molise (31%). La situazione migliore è quella del Trentino Alto Adige, dove la quota di Neet si ferma al 14,7%.
Un quadro, questo, in parte condizionato dallo scoppio della pandemia, con le sue ben conosciute ripercussioni sull’economia mondiale. Rispetto al 2010, infatti, il 2020 presenta un’incidenza di giovani Neet superiore di 1,8 punti percentuali. E, pur essendoci stata una decrescita tra il 2016 e il 2019, nel 2020 il dato è tornato a salire di 1,3 punti percentuale.
E’ tra le femmine che si rileva una percentuale maggiore di giovani Neet (29,3%) rispetto ai maschi (21%). Confrontando la situazione italiana con quella dei principali paesi europei - cioè Grecia, Spagna, Portogallo, Romania, Francia, Finlandia, Svezia, Norvegia, Finlandia, Paesi Bassi - nel 2020 l'Italia, con il 31,5% di Neet tra i 25 e i 29 anni, ha il dato peggiore, seguita dalla Grecia (28,9 %) e dalla Spagna (23,7%). Mentre la più bassa percentuale la troviamo nei Paesi Bassi (fonte Eurostat).
Occupazione giovanile: in leggera crescita, ma siamo tra i peggiori in Europa
In realtà, con l’arrivo del 2021, il tasso di occupazione dei giovani italiani tra i 25 e i 29 anni è cresciuto rispetto all’anno precedente, passando dal 53,4% del primo trimestre al 57,8% del terzo. Il momento peggiore negli ultimi tre anni, secondo Eurostat, è stato il secondo trimestre del 2020, quando l’occupazione è scesa al 52,7%. Invece, le percentuali registrate nel secondo e terzo trimestre 2021 sono le più alte del triennio 2019- 2021.
Aspettiamo, però, a gioire: nonostante quanto detto, se ci spostiamo in Europa e prendiamo la fascia 20-29 anni, considerata nel dataset Eurostat, nell’ultimo dato annuale disponibile (2020), scopriamo che l’Italia ha il tasso di occupazione giovanile più basso tra gli 11 principali paesi europei (42%) già presi in esame nel precedente paragrafo. Al contrario, confrontando i tassi di disoccupazione giovanile (sempre della fascia 25-29 anni per l’anno 2020) siamo la terza peggiore nazione con il 17,1%, dopo Spagna (22,9%) e Grecia (27,2%).
Costretti al part time anche se vorrebbero un full time
Negli ultimi 10 anni, poi, il tipo di occupazione part-time è molto aumentata sia tra i giovani
maschi che tra le giovani femmine tra i 25 e i 29 anni. Nel primo caso, si è passati dal 7,8% di occupati part time nel 2010 al 13,6% nel 2020; nel secondo, dal 24,8% al 30,3%. Non solo: dal confronto tra maschi tra i 15 e i 64 anni e maschi tra i 25 e i 29 anni emerge come questo tipo di contratto sia molto più diffuso tra i giovani, con uno scarto di quasi 7 punti percentuale. Considerando la componente femminile per entrambe le fasce d’età non si evidenziano nette differenze.
Secondo i dati Eurostat, c’è un ulteriore aspetto da considerare: in moltissimi casi il part-time è definito “involontario” in quanto, per la maggior parte dei giovani, rappresenta l’unica possibilità lavorativa, con numeri elevatissimi. Infatti, 8 giovani su 10 che svolgono un lavoro part-time sarebbero disponibili a farlo full time. Un dato cresciuto di oltre dieci punti nell’ultimo decennio, ed è sostanzialmente stabile dal 2014.
La repubblica degli stagisti
Ormai lo sanno anche gli asini: tra le forme di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, una delle più diffuse è quella dello stage. Secondo le rilevazioni di Anpal (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro), nel periodo 2014-2019, ben il 17% dei giovani è entrato nel mercato del lavoro proprio attraverso un tirocinio. In generale, il numero di stage attivati ogni anno è in crescita, anche grazie agli incentivi del programma Garanzia Giovani. Ma la vera domanda da porsi è: quanti stage confluiscono, dopo il tirocinio, in un contratto di lavoro? Si tratterebbe, per l’intero Stivale, del 25,8% degli stage della durata di un mese, del 28,7% di quelli di 3 mesi e del 29,9% di quelli di 6 mesi. Ovviamente, prendendo nel dettaglio le zone d’Italia, i numeri possono variare di molto. Nel Mezzogiorno, infatti, uno stage di 6 mesi si tramuta in un contratto di lavoro solo nel 25,2% dei casi. Se è durato solo 1 mese, nel 19,4% delle occasioni. Tra chi ha passato in azienda almeno 3 mesi, solo il 23,4% è stato poi assunto.
Giovani e donne guadagnano poco
Chiude la rassegna l’ultimo rapporto Censis che si focalizza, nel capitolo “Lavoro, professionalità, rappresentanze”, sulle retribuzioni degli oltre 15 milioni di lavoratori pubblici presenti negli archivi Inps. Quello che colpisce è che, se il dato medio complessivo riferito alla giornata retribuita si attesta a 93 euro, una donna percepisce una retribuzione inferiore di 28 euro se confrontata con quella di un uomo. Quindi, la retribuzione per una donna è inferiore del 18% rispetto alla media, mentre quella di un uomo è del 12% superiore. Ma le differenze sono riscontrabili anche in base all’età dei lavoratori: un under 30 prende in media 45 euro in meno di un over 54. La penalizzazione dei giovani è di ben il 30% rispetto alla media e di 48 punti percentuali rispetto ai lavoratori con più di 54 anni.
Abbiamo visto, finora, che i contratti dei giovani sono spesso part-time. Ebbene, ampia è anche la distanza tra la paga giornaliera di chi ha un contratto a tempo indeterminato rispetto al tempo determinato e tra chi, per l’appunto, ha un full time o un part-time. La giornata lavorativa del tempo indeterminato vale 97 euro contro i 65 del lavoro a termine, la retribuzione giornaliera del tempo pieno vale più di due volte quella del tempo parziale.