Il suicidio della studentessa dell’Università IULM ha riaperto la delicata questione sulla condizione psicologica degli studenti. Aspettative, competitività, ansia tra le cause principali che portano all’estremo gesto.
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Un luogo dove trovare ascolto e sostegno in tutte le università, le accademie, i conservatori, i luoghi di alta formazione. E l’obiettivo dichiarato del ministro dell’Istruzione e della Ricerca, Anna Maria Bernini, dopo l’ennesima vita spezzata per “colpa” degli studi, quella della 19enne suicida all’interno dello IULM di Milano.
Ad annunciarlo lei stessa: “Ho dato mandato alle Direzioni di predisporre una proposta alle Università per supportare le esigenze di ascolto e sostegno dei nostri ragazzi”, ha dichiarato Bernini durante un intervento al convegno nazionale della Società Italiana di Pedagogia.
In pratica, se il progetto dovesse andare in porto, tutte le strutture adibite ad accogliere gli studenti nel post diploma, laddove non l’abbiano già fatti, dovranno dotarsi di sportelli psicologici o similari. “Il nostro obiettivo - ha sottolineato il Ministro - è sostenere chi ne ha bisogno, aiutare a capire che il merito è un percorso, ed è soprattutto una conquista con sé stessi, non il risultato di una sola performance”. Per mettere fine una volta per tutte ai tragici episodi che vedono protagonisti giovani in difficoltà a causa di un fallimento nel proprio percorso post scolastico. O perlomeno di ridurne i numeri al minimo. E, più in generale, di aprire un dibattito approfondito sulla salute mentale dei ragazzi.
Malessere mentale, è emergenza suicidi tra i giovani
Ma che la situazione non fosse proprio idilliaca era già noto. A dipingere un quadro davvero allarmante ci ha pensato un recente report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un dato su tutti: tra gli under 30 il suicidio è la seconda causa di morte a livello globale. Numeri che trovano riscontro anche nel nostro Paese. Come riporta il sito Skuola.net, l’Istat stima infatti in circa 4mila i suicidi che vanno in scena ogni anno in Italia, il 13% - circa 500 - dei quali tra gli under 34. Di questi, ben 200 si verificano tra gli under 24. Ed è facilmente intuibile che, tra loro, un’ampia fetta sia costituita da studenti universitari.
La pandemia ha certamente avuto un ruolo fondamentale, ma non è la causa principale da cui scaturiscono i disagi dei giovani. Una consapevolezza che traspare anche dalle parole del ministro Bernini, secondo cui “aumentano le fragilità legate al post covid o alla necessità di misurarsi con un mercato del lavoro che richiede performance sempre più alte. Ma aumenta soprattutto il timore del giudizio negativo degli altri”.
I segnali inequivocabili di un malessere largamente diffuso, però, erano molti già prima della pandemia. L’Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù”, ad esempio, ha di recente pubblicato dei dati che aiutano a capire meglio la problematica, che coinvolge anche i più piccoli: in 8 anni si è passati da 12 casi di tentato suicidio del 2011, ai 237 del 2018.
Inoltre, anche quando il disagio non è sfociato in un gesto “estremo” i ragazzi hanno trovato vie alternative per procurarsi del male fisico. Secondo una ricerca internazionale - pubblicata dal Journal of Child Psychology and Psychiatry - il 27,6% dei giovani europei pratica l’autolesionismo, recandosi intenzionalmente dolore fisico: in Italia la proporzione è di circa 1 su 5.
Il quadro che emerge è davvero allarmante e le cause poggiano quasi sempre le proprie radici nel contesto scolastico e accademico. Prima di tutto, la mancanza di un’educazione al fallimento e una competizione sempre più estrema gettano molti studenti - avviliti dai risultati scolastici - in un limbo di panico e ansia da prestazione. A questo si aggiungono poi i fenomeni - anche questi sempre più diffusi - di bullismo e cyberbullismo: le continue vessazioni portano le giovani vittime a isolarsi nel migliore dei casi, o a compiere - nel peggiore - il fatidico gesto. E l’università, purtroppo, è tra i teatri principali delle tragedie degli ultimi anni.
L’università il teatro principale delle tragedie
Dalla storia di Daniela, 30enne che si tolse la vita nel 2020 buttandosi dal quarto piano del parcheggio multipiano del Campus di Fisciano dell’Università di Salerno, al caso di Adele, la studentessa trovata morta nell’Università IULM con il collo serrato da una sciarpa. La prima, che rischiava di perdere gli esami a Medicina, ma da anni non poteva seguire le lezioni a causa di problemi di salute; la seconda, che ha lasciato in borsa un biglietto in cui manifestava il suo malessere. Passando per Riccardo, che non ha trovato il coraggio di raccontare alla famiglia la verità sul suo percorso accademico ed è andato a schiantarsi con l’auto contro un albero, il giorno in cui avrebbe dovuto festeggiare una laurea che, invece, non era neanche programmata.
Sono solo pochi esempi di studenti che hanno perso la vita a causa del senso di fallimento legato ai propri studi negli ultimi anni. Se ne possono contare, a partire dal 2020, almeno una decina che sono stati raccolti dalle cronache. Chissà quanti altri sono rimasti “invisibili”. Si può immaginare, inoltre, che tanti altri giovani abbiano vissuto e vivano tutt’oggi lo stesso disagio pur non arrivando al gesto estremo.
Un malessere che accomuna questi giovani con un sottile filo rosso: essere diventati vittime di un sistema che valuta solo il rendimento sui libri, che non pone attenzione alle esigenze individuali, e che soprattutto non supporta i giovani dal punto di vista della salute mentale. Contrastare l’insorgere del disagio potrebbe quindi rivelarsi una strada valida da percorrere, magari con sportelli di counseling e di ascolto, come annunciato dal Ministro Bernini, per far sì che in Italia non si muoia più di università.