il progetto della Fondazione Italo-colombiana del Monte Tabor
© in-concessione
Eccoci al progetto n° 4: la nave ospedale di Buenaventura, Colombia.
Ci arriviamo un po' frullati. Da quando ci siamo lasciati, attorno al 15 dicembre, da San Francisco siamo rotolati verso sud senza soste.
Da Frisco abbiamo raggiunto Nevada e Arizona. Siamo passati in Messico a Nogales e abbiamo attraversato gli stati di Sonora, Sinaloa, Durango, Zacatecas, San Luis Potosì, Queretaro, Mexico, Puebla, Oaxaca e Chiapas. Poi è arrivata la parte più dura: Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Costa Rica e Panama. A Panama abbiamo dovuto risolvere il problema del Darien Gap: 60 km senza strade, che tagliano in due un continente che unisce (meglio dire: unirebbe) i due poli.
Per questioni che non racconto qui, abbiamo dovuto optare per un altro trasporto aereo (tutto sommato il più rapido ed efficiente incontrato fino ad ora) fino a Bogotà.
Una volta arrivati a Bogotà raggiungere Cali, headquarter del progetto di cui andiamo a parlare, è quasi una gita.
A parte le condizioni delle strade, un po' di pioggia e l'ininterrotta coda di camion che si arrampicano verso “La Linea”.
Ma ora vi dò qualche elemento in più, per inquadrare la situazione in cui ci troviamo.
Tanto per cominciare: la Cali di cui parliamo è proprio quella a cui state pensando.
Questa è la Cali del “cartello di Cali” che ha conteso a Medellin (che sta un po' più a nord) il titolo di capitale mondiale del narcotraffico. Dal '77 al '98 questa organizzazione controllava (oltre a una infinità di attività illegali) l'80% del traffico di cocaina con gli USA. Fra i suoi alleati spiccavano il cartello di Sinaloa, quello di Tijuana, di Juàrez, la mafia russa e “Los Pepes”. I nemici erano i cartelli di Medellin (Pablo Escobar) e quello di Norte del Valle.
Continuo facendo riferimento a fatti più recenti. Il presidente della Colombia ha recentemente ottenuto il premio Nobel per i suoi sforzi di ricostituire un tessuto sociale lacerato da decenni di lotta armata.
Vi assicuro che ho dedicato parecchio tempo alla ricostruzione delle sigle e degli orientamenti della varie organizzazioni. Ma, fra lacerazioni interne e nascita di nuove sigle, il cui compito era quello di “difendersi da quelle già esistenti” o di vendicarsi di qualche torto subito, trarre un disegno generale organico è quasi impossibile. Oggi come oggi è ancora difficile capire quali siano le organizzazioni ancora attive (l'E.L.N., nei giorni in cui scrivo, è stata accusata - e forse ha anche rivendicato, un sanguinoso attentato in una stazione di polizia) e quali stiano portando avanti il processo di pace.
Ovviamente, ognuna di esse ha necessità finanziarie e di controllo del territorio, che risolve come meglio crede...
Ultima considerazione. Nel nostro ultimo viaggio in America Latina, avevamo visitato un progetto per la creazione di un centro di maternità a San Lorenzo, sulla costa pacifica Ecuadoriana. Il progetto interveniva in una delle aree dove viene registrata la più alta mortalità perinatale del mondo. Una zona dove lo stato ecuadoriano era praticamente inesistente.
Ora stiamo lavorando pochi chilometri più a nord.
Oddio, ho detto “pochi chilometri” mentre in realtà sono quasi 1000, ma non è che cambi granché.
La situazione pare molto simile. Una costa frastagliata e selvaggia, centinaia di isole di mangrovie, fiumi e canali, quasi totale assenza di strade e presenza di gruppi paramilitari di ogni estrazione, che si mantengono controllando un territorio che è una delle migliori vie di comunicazione per il trasporto di ogni tipo di merce illegale, con preferenza per la cocaina.
Nel tratto Colombiano di questa costa, lungo circa 1500 chilometri, vivono quasi 400.000 persone, per la maggior parte di colore. Sembra che questa particolarità sia dovuta al fatto che quest'area era la preferita per gli insediamenti degli schiavi in fuga. Il clima caldissimo e la mancanza di vie di comunicazione la rendeva, e la rende ancora, difficilmente raggiungibile e refrattaria al controllo statale, che per altro non viene esercitato se non in maniera saltuaria e poco influente sulla qualità di vita dei residenti.
Ovviamente, dove non è presente l'autorità statale, se ne insediano altre che, più o meno, appartengono all'elenco che ho fatto prima: formazioni guerrigliere, narcos, funzionari corrotti e tutti gli incroci che inevitabilmente si creano in queste situazioni.
Mi rendo conto che non sono stato organico nella descrizione, perciò provo con una sintesi più rozza ma forse più plastica. Sulla costa a nord e a sud di Buenaventura, porto di attracco della nave ospedale, regna l'illegalità più totale e la popolazione vive delle briciole dei commerci illegali e dei posti di lavoro che questa situazione offre. Poiché le situazioni si chiariscono facendo qualche esempio, ne offrirò uno solo che mi pare più che trasparente: da queste parti uccidere un uomo costa molto meno di 100 usd.
In una situazione simile i servizi essenziali sono i primi a soffrire. La sanità Colombiana è formalmente presente, ma quasi irrilevante. Da una parte il personale pubblico non è particolarmente entusiasta di essere destinato qui e, una volta arrivato, fa di tutto per andarsene. Questo porta ad una totale discontinuità di servizio. I trasporti costano moltissimo. Circa il 60% della popolazione residente per raggiungere un centro di salute o l'ospedale, deve spendere dai 30 ai 120 USD. Non sembra molto, ma questo è paese dove il reddito medio è di circa 300 USD al mese. Quando si tratta di patologie chirurgiche è evidente la necessità di essere accompagnati da un parente e i costi raddoppiano...
Poi metteteci la condizione delle lance che fanno questo servizio, le piogge, la marea, gli scontri fra fazioni, le operazioni di polizia...
Torniamo a noi. Arriviamo a Cali domenica pomeriggio. L'albergo è strategicamente piazzato a pochi metri dall'indispensabile centro commerciale che ci permette di procurare i beni indispensabili per la sopravvivenza. In serata ci raggiungono Diego Paz (che risponde all'assai più importante appellativo di don “Diego Orlando Posso Paz”) e Ana Lucia (Lopez Salazar).
Davanti a una tazza di caffè abbastanza buono, cominciamo a indagare sul progetto. Diego risponde pienamente a quello che ci si aspetta da un colombiano: è brillante, gigione, spiritoso e parla un ottimo italiano. Del resto ha lavorato in Italia per molti anni, come infermiere all'ospedale San Raffaele. Ana Lucia è più riflessiva ma è una fonte infinita di dati, aneddoti ed esperienze.
La storia che ci raccontano è molto complicata e senz'altro influenzata dalle vicende personali e dai fatti accaduti al “San Raffaele”: uno scandalo che ha portato al fallimento di una delle più importanti esperienze ospedaliere in Italia. Devo dire che separare i diversi aspetti della vicenda mi crea molte difficoltà. Mai come in questo caso mi rendo conto di come “il personale” possa diventare “politico”.Diego è un inguaribile nostalgico della passata gestione del San Raffaele e ci costringe a fare qualche considerazione critica su alcune parti della sua narrazione.
D'altra parte il mio compito è proprio quello di fare un po' d'ordine, perciò preferisco parlare, prima, della parte operativa del progetto e, solo dopo, raccontarne la storia.
La Fondazione Italo-colombiana del Monte Tabor (costola dell'Ospedale San Raffaele) è nata dalle necessità evidenziate in sette missioni mediche realizzate sulla costa Colombiana del Pacifico dal 2005. In sostanza, la situazione che ho cercato di raccontare. Realizzare una “nave ospedale” è sembrata la soluzione più visionaria ma anche la più corretta. Solo in questo modo era possibile raggiungere le comunità remote.
Ovviamente la sua realizzazione non è stata né semplice né veloce. Tanto per citare alcuni esempi: Diego ha dovuto lavorare con le autorità per stabilire le regole a cui si doveva adeguare la nave per poter ospitare un ospedale. Le regole, manco a dirlo, non c'erano, perciò Diego ha dovuto stenderle e farsele approvare.
Dal 2009, attraverso la "Nave Ospedale San Raffaele" è stato possibile raggiungere 13 comuni nei 4 dipartimenti della Costa del Pacifico e oltre 30 villaggi e insediamenti umani. Quasi l'80% degli insediamenti visitati è poverissimo e molto isolato rispetto ai servizi pubblici.
Negli otto anni di attività, sono state assistite circa 49.000 persone e la nave ospedale San Raffaele è l'unica infrastruttura in grado di soddisfare le esigenze sanitarie nel primo livello e i servizi del secondo livello. Ma, essendo dotata di un efficiente sistema di raccolta dati sulla situazione sanitaria nell'area, ha anche svolto una funzione a supporto del governo dipartimentale.
Vale la pena di sottolineare una particolare similitudine con il progetto Ecuadoriano che visitammo 5 anni fa.
Dei comuni visitati, nessuno ha un servizio di ginecologia. Nell'85% dei casi, i parti avvengono in casa, con l'assistenza di una “partera”. Non esiste un servizio di ecografia, che è essenziale per evitare gran parte delle morti perinatali, né sono disponibili i controlli che le donne incinte dovrebbero fare.
Le parteras (le ostetriche tradizionali) sono comunque un'arma importantissima per ridurre il numero delle morti, purché siano correttamente formate nell'individuazione dei rischi del parto. Perciò un'altro compito che la nave ospedale si è assunta è stato quello di formare queste donne di grande esperienza (spesso completamente analfabete e non particolarmente propense ad accettare interventi esterni).
Su questo versante è stato indispensabile coinvolgere i leader comunitari (spesso personaggi ai limiti della legge) e tutta la comunità, nei processi di prevenzione e sorveglianza, in modo da creare capacità di autogestione e auto-aiuto e conoscenza dei propri diritti.
Ovviamente, rimane indispensabile creare collegamenti con le istituzioni, per la gestione delle situazioni di rischio più gravi o complesse durante la gravidanza e il parto.
Tornando invece alla sistematizzazione dei dati raccolti, sono state individuate aree di particolare rischio (oltre alla gravissima situazione osterico-perinatale) che sono: infezioni acute delle vie respiratorie, malattie diarroiche acute, denutrizione o cattiva nutrizione, ipertensione arteriosa, malattie infettive varie.
Insomma: la nave ospedale serve. Serve a tutti: ai pazienti, alle comunità, alle autorità.
E allora cosa resta da dire?
Intanto che la nave ospedale l'abbiamo vista. Non è un transatlantico, non è lussuosa, forse non ha le attrezzature di ultimissima generazione, ma c'è.
Purtroppo non l'abbiamo vista in missione. Ogni uscita richiede un'organizzazione assai complessa.
Va pianificata con anticipo, coordinandosi con le esigenze delle comunità locali.
Cerco di semplificare la spiegazione.
In base ai problemi segnalati dalle comunità locali, rilevati dalle precedenti visite o segnalati dalle autorità, viene scelta un'area di intervento per la missione.
In base ai problemi rilevati o segnalati, la nave deve essere diversamente attrezzata: servono specialisti e medicinali adeguati ad affrontare la realtà a cui si va incontro.
Non trascurate che, tutto quello che si può, va risolto durante la missione: visite, esami, diagnosi, terapie, interventi chirurgici, alimenti, laboratori di educazione alla salute sessuale e riproduttiva...
Solo le situazioni più intricate vengono rimandate agli ospedali, ma senza trascurare tutto il lavoro burocratico, logistico e “di pressione” necessario perché il paziente, che non può essere curato e guarito direttamente, trovi corretta e immediata assistenza.
Per tutti questi motivi, non ha senso pretendere di avere una missione a puro scopo dimostrativo. Non trascurate poi che convocare la squadra di lavoro (fra equipaggio e personale medico si parla di quasi 40 persone) e pagare le spese di carburante, cibo, eccetera, costa circa 40000€.
Ho cercato di stabilire un rapporto fra i costi e i benefici. Non è un conto semplicissimo ma, basandomi sui dati di bilancio, risulta che il costo di ogni paziente assistito è di 16€.
Pochissimo.
Ovviamente si tratta di un costo medio che non tiene conto di un servizio importantissimo: l'archivio medico degli assistiti. In pratica dell'unico screening epidemiologico in questa area.
Il lavoro della nave ospedale è iniziato nel 2009 con 4 missioni, nel 2010, 2011 e 2012 le missioni si erano stabilizzate: 6 o 7 l'anno.
Un'iniziativa di questo genere e con questi risultati, avrebbe successo ovunque.
Purtroppo i progetti di cooperazione possono fallire non solo per problemi incontrati nel paese in cui il progetto viene implementato.
Non è qui il caso di rispolverare tutta la storia del clamoroso fallimento del San Raffaele, che si è sviluppato nel 2011 e nel 2012.
Fatto sta che il “Barco Hospital” è andato alla deriva.
Diego, che ne aveva curato la realizzazione, ma nel frattempo era passato ad altri progetti, è stato uno delle migliaia di dipendenti licenziati.
Gli effetti si sono visti: zero missioni nel 2013.
Purtroppo una iniziativa come la nave ospedale fa gola anche a faccendieri e burocrati, che hanno tentato di sfruttarla per i loro interessi privati. Gli anni fra il 2011 e il 2013 sono stati nerissimi anche sul fronte colombiano.
Ma per Diego e Ana Lucia questo progetto è un figlio, una scommessa, una missione, un punto d'orgoglio.
Ana Lucia è riuscita a bloccare i tentativi di speculazione e, con l'aiuto di Diego rientrato in Colombia, è riuscita a rimettere in piedi una rete di sostenitori “di peso”.
Nel 2014, Ana Lucia ha vinto il premio “Mujer Cafam”. Oltre ad essere un premio importante, viene consegnato dalla moglie del presidente della Repubblica Colombiana. Un ottimo modo per arrivare, finalmente, ad avere contatti importanti “non mediati”.
La nave, abbandonata per più di un anno, è stata saccheggiata e necessita di molte riparazioni ma le missioni riprendono: 2 nel 2015, 4 nel 2016 e, finalmente, 7 nel 2017.
E' successo qualcosa che dovrebbe essere il destino di ogni operazione di cooperazione internazionale: riuscire a sostenersi con risorse locali.
Ora l'obiettivo è duplice. Da una parte Diego e Ana Lucia stanno discutendo con il servizio sanitario nazionale per ottenere il rimborso delle singole prestazioni. Dall'altra stanno cercando di accedere ai fondi che spettano ad un ospedale. Su questo fronte le cose saranno un po' più difficili: lo stato colombiano eroga già dei fondi per l'area in cui la nave ospedale opera. Purtroppo vanno in gran parte perduti...
Sarà una bella battaglia, ma è quella giusta. Il governo colombiano deve riconoscere la funzione che la nave ospedale esercita.
Però è una iniziativa colombiana che discute con il governo colombiano: è per questo che siamo certi che ce la faranno.