In Australia il secondo progetto visitato da Anna e Fabio Stojan
© in-concessione
Per semplicità ho l'abitudine di identificare i progetti che visitiamo con la nazione in cui si trovano. Credo sia perché il primo problema che mi trovo ad affrontare è quello di capire dove sono situati e che difficoltà comporta raggiungerli. Guadagnarsi l'Australia è stato un bel problema.
Ma ora, arrivati dall'altra parte del mondo, conviene identificare il progetto con il suo vero nome: Indigenous Literacy Foundation.
Non è la prima volta che raggiungiamo l'Australia in moto. Anzi, la prima volta che l'abbiamo fatto – nel 2008 – l'Australia era l'obiettivo finale. A quei tempi non avevamo altri compiti che non fossero il viaggio in sé e la voglia di raccontarlo.
Quella volta trasportammo la moto, via nave, da Singapore a Darwin. Darwin (cito i dati di allora) era una cittadina di 100.000 abitanti, che rappresentano la metà dei residenti nel Northern Territory la cui superficie è pari a quella di Italia, Francia e Spagna sommate. Di questi 200.000 abitanti, il 32% (secondo le statistiche) è rappresentato da aborigeni. Per questo eravamo ansiosi di incontrare questi fieri cacciatori, armati di boomerang e li immaginavamo appollaiati su una gamba sola a scrutare il bush.
Per questioni doganali legate all'importazione della moto restammo a Darwin diversi giorni e, come sempre succede, prendemmo qualche contatto con le abitudini locali.
Le abitudini locali che ci interessano sono quelle legate alla pura sopravvivenza. Prima fra tutte: dove sta il centro commerciale?
A Darwin ce n'è (era?) uno solo. Secondo regole australiane, la sezione alcolici ha un ingresso separato, vietato ai minori. Questo non impedisce ai “maggiori” di comprare dosi di birra che sembrano più adeguate per farci il bagno che per berle. L'altra cosa notevole era che, nella sezione alcolici, c'erano sempre degli aborigeni che si bevevano, di nascosto, tutto quello su cui riuscivano a mettere le mani. Il furto era perpetrato con tale imperizia da essere evidentemente tollerato dal personale e così continuativo da sembrare “istituzionalmente” accettato. Del resto, sul piazzale antistante vivacchiavano numerose famigliole aborigene in stato di continuo stupore alcolico.
Uno spettacolo impressionante, che si ripeteva in ogni cittadina lungo la rotta: Palmerston, Humpty Doo, Pine Creek, Katherine, Elliott, Threeways e giù fino a Tennant Creek, Alice Spring, Coober Pedy. Come compaiono i “pali della luce” indice di presenza di aree più densamente popolate, gli aborigeni quasi scompaiono. In realtà se ne trovano di tue tipi: quelli occidentalizzati, che hanno più o meno accettato il sistema di vita dei colonizzatori, e i dropout.
Già allora ci sembrò indispensabile qualche approfondimento.
Facciamo perciò un minimo di storia.
Anche se i primi sbarchi di navigatori europei si datano all'inizio del 17° secolo, la scoperta dell'Australia si fa risalire al 1770 circa. Ma la data che viene festeggiata in Australia come “nascita della nazione” è il 26 gennaio 1788, quando venne fondata la città di Sydney o, come i più dicono, venne inaugurata la colonia penale di Botany Bay grazie all'importazione diretta dalla Gran Bretagna di un certo numero di pericolosi criminali e delle loro guardie. La data, di fatto, corrisponde all'inizio dell'occupazione ufficiale da parte della Corona Britannica.
La Corona Britannica rivendicò il possesso dei territori Australiani dichiarandoli “terra nulluis” ovvero “terra di nessuno”, cioè priva di abitanti che potessero rivendicare alcun diritto su di essa.
E qui rientrano in gioco i nostri aborigeni che, invece di essere identificati con i comuni sinonimi di “indigeni” o “autoctoni”, si sono trovati a portare anche il peso di questa definizione che, anche se priva di oggettivi contenuti spregiativi, ha finito con assumere un valore negativo.
Comunque, al momento della “scoperta” dell'Australia, si calcola che ci vivessero circa 750.000 indigeni, anche se alcune fonti li fanno crescere fino a tre milioni. Abbastanza numerosi da non poter considerare l'Australia un continente “a disposizione di chi se lo prende”.
Il termine “aborigeno” ci fa automaticamente pensare a uno sparuto numero di superstiti dell'età della pietra. Tale etichetta viene applicata in maniera generalizzata, facendoci pensare che si tratti di una unica tribù. In realtà gli indigeni australiani sono tutt'altro che una unica tribù. Tutt'altro che vero. Si calcola che in Australia fossero parlate oltre 200 lingue differenti. Attualmente ne sopravvivono circa 30, a cui si aggiunge una lingua franca, definita comodamente “creolo”.
Anche l'immagine del ”fiero cacciatore, armato di boomerang, appollaiato su una gamba sola eccetera..” è solo uno stereotipo che può forse valere per le popolazioni che vagavano nel deserto centrale. In realtà esistono numerosi gruppi stanziali ma, soprattutto, abitudini, lingua e usi, si differenziano moltissimo da zona a zona.
L'arrivo dei bianchi è stato, per tutti, un disastro che ha quasi distrutto l'intera popolazione indigena. Anche prima della vera invasione, si cominciò con il contagio: varicella, vaiolo, morbillo e influenza iniziarono a decimare gli indigeni. Seguirono le malattie veneree. Poi il furto delle terre che rendeva la sopravvivenza sempre più precaria. Seguirono gli scontri più violenti che proseguirono per tutto il 19° e buona parte del 20° secolo (l'ultimo massacro a spese degli aborigeni si fa risalire al 1928) anche se proseguirono atti violenti e tattiche di sterminio come l'avvelenamento dei pozzi e del cibo.
Gran parte degli aborigeni sopravvissuti furono poi impiegati nei lavori pesanti in condizioni di effettiva schiavitù.
Si calcola che 150 anni di devastazione siano arrivati a ridurre la popolazione indigena del 90%.
Alle varie vessazioni, fra la fine dell’800 e l’inizio degli anni ’60 (in alcuni casi la pratica è proseguita fino agli anni '70) almeno 100.000 bambini aborigeni, soprattutto meticci, vennero sottratti con la forza alle loro famiglie e fatti crescere sotto la custodia dello stato, delle missioni o affidati a genitori adottivi bianchi. La motivazione era quella di una “protezione morale”, soprattutto dei meticci, che in quanto “mezzi bianchi” non potevano essere lasciati alle cure di una tribù di “selvaggi”.
A sostegno del fatto che si trattasse si una vera strategia c'è il fatto che, se da una parte è vero che molti erano effettivamente figli di padri bianchi, è anche vero che, nella scarsa conoscenza dell'identità razziale indigena, sono stati deportati in maggioranza i bambini appartenenti a etnie di pelle più chiara e dai capelli biondi.
Quei bambini deportati, sono chiamati “Stolen Generation”: Generazione Rubata. Solo nel 1995 un’inchiesta condotta dalla Commissione per i diritti umani ha portato alla luce questo dramma rimosso.
E’ stato così possibile conoscere la verità sulla politica profondamente razzista con cui, fino agli anni ’70, le autorità australiane hanno tentato di negare l’identità aborigena attraverso uno sconvolgente programma di assimilazione forzata che l’Onu ha definito genocidio.
La coercizione culturale e religiosa, lo sfruttamento e il lavoro obbligatorio, i maltrattamenti fisici e lo stupro da parte dei bianchi su una percentuale altissima delle ragazze aborigene uscite dalle missioni, ha provocato la perdita quasi irreparabile della cultura indigena.
Perché qualcosa iniziasse a cambiare non è bastata l'indipendenza dell'Australia ma si è dovuti arrivare alla fine degli anni '60. La legge che parifica gli stipendi fra occupanti e indigeni è del 1965 (inizialmente ha avuto l'effetto contrario provocando l'espulsione di una gran quantità di lavoratori indigeni dal mercato del lavoro).
Il referendum che ha dato loro il diritto di voto è solo del 1967. La sentenza che ha abolito il principio della “terra nullius” è del 1992. Nel '99 è stato finalmente inserito, nella costituzione australiana, il preambolo che riconosce l'occupazione da parte dei nativi precedente all'insediamento britannico e nel 2008 il primo ministro ha presentato le scuse ufficiali della nazione per la “stolen generation”.
Ancora oggi però le condizioni degli indigeni sono molto precarie.
Oggi un aborigeno ha la possibilità di morire a causa del diabete 22 volte superiore a quella di un australiano bianco e la sua aspettativa di vita alla nascita è di 17/20 anni inferiore.
Che questi problemi esistessero ci era sembrato già abbastanza evidente alla nostra prima visita al centro commerciale di Darwin nel 2008...
Dopo le scuse, il governo australiano ha attivato numerose strategie di supporto per le comunità aborigene remote. Mi hanno detto che attualmente ogni aborigeno riceve una “pensione” di 500 AUD la settimana, sono stati creati infiniti insediamenti con case ragionevolmente confortevoli, assistenza medica e legale e uno spaccio alimentare. Ma sono ancora pensate con una mentalità “da colonizzatori”. Dopo 200 anni di devastazione fisica e mentale, avere un po' di soldi e uno spaccio in cui spenderli, possono sembrare una ottima cosa. Probabilmente lo sarebbero, se l'aborigeno fosse in grado di diventare, dall'oggi al domani, un consumatore informato, che evidentemente non è. Piuttosto che passare la giornata in giro per il deserto a cercare larve o chissà che altro per riempire saltuariamente lo stomaco (faccio rilevare che le rarissime comunità che vivono ancora secondo le tradizioni, hanno un'aspettativa di vita di 10 anni superiore agli indigeni “assistiti”) è molto più comodo andare allo spaccio, bersi un paio di birre e mangiare qualche tavoletta di cioccolato o qualunque altro tipo di cibo conservato.
Per essere in grado di gestire un simile cambio di “stile di vita” occorre informazione. Informazione che gli indigeni non sono in grado di avere perché, semplicemente, non sanno leggere. Non sono in grado, perché la scrittura non fa parte della loro cultura, basata sostanzialmente sulla tradizione orale e sul disegno. Nè il nostro sistema di insegnamento è adeguato. Nè, e questa è forse la cosa più importante, sono disposti ad accettare l'obbligo di adeguarsi alla cultura che li ha quasi distrutti.
Queste sono le prime cose che ci hanno raccontato Karen Williams e Tina Raye nella sede di Indigenous Litercy Foundation, a Sydney, mostrandoci una incredibile serie di libri per bambini, con testo a fronte nelle principali lingue aborigene e in “Krioll” distribuiti gratuitamente nelle comunità remote.
Abbiamo immediatamente sentito il bisogno di un supplemento di indagine e abbiamo chiesto di incontrare Suzy Wilson, la fondatrice di ILF, a Brisbane.
Suzy ha accettato, e ci siamo subito mossi verso nord per 1000 km.
Suzy è proprietaria della Riverbend Books and Teahouse, una bella libreria nell'elegante quartiere di Bulimba, Brisbane. Prima di fare la “libraia” è stata insegnante. E' stata fulminata dalla realtà aborigena nei primi anni 2000 e ha varato la sua iniziativa nel 2005 dopo essersi resa conto che 4 su 5 bambini delle comunità remote non erano in grado di leggere al minimo livello richiesto dall'Australian Standard English.
Essere incapaci di leggere e scrivere è una importante barriera per educazione, impiego, salute e benessere e, in questo campo, le comunità remote sono le più svantaggiate. Purtroppo, un rapporto del febbraio 2017, certifica che, su scala nazionale, non ci sono stati miglioramenti rispetto al 2008. Un altro rapporto del 2016 sancisce che solo il 25% degli studenti indigeni della 5° classe raggiunge lo standard minimo contro il 91% dei non indigeni.
Susy si è lanciata in questa iniziativa con una forza imprevedibile. Ha attivato tutti i canali possibili raccogliendo, negli anni, quasi 7 milioni di dollari.
Ha anche avuto la capacità di partire nel giusto momento storico, il che le ha permesso di ottenere un grande appoggio da parte degli editori e della politica. Ha accettato il supporto politico, ma solo nella misura in cui non ledesse l'indipendenza dell'iniziativa: cose che possono succedere solo in Australia...
Ora parliamo delle attività.
La Fondazione opera direttamente in tre aree principali.
La prima è il Book Supply, che consiste nel regalare a più di 230 comunità remote, libri culturalmente adeguati. Lo spaccio che esiste in ogni comunità, non ha molti libri a disposizione. Perciò ne vengono inviati (con i mezzi più disparati: quando dico comunità remote, vuole dire che sono davvero remote...) agli asili, scuole, centri femminili, centri di salute, eccetera. I libri devono essere adeguati ad ogni età e sono distribuiti assolutamente gratis. Secondo questo programma, sono già stati distribuiti 250.000 libri.
Inizialmente dicevo che devono anche essere “culturalmente adeguati” cioè: non devono urtare la cultura indigena, devono rappresentare background culturali diversificati, non contenere personaggi che potrebbero essere interpretati come “spiriti” e non essere religiosi.
La seconda iniziativa è il Book Buzz, attiva in un numero più ridotto di comunità, a cui vengono forniti libri per la primissima infanzia distribuiti direttamente alle famiglie. Vengono forniti libri di qualità elevata, tradotti nella lingua nativa. Anche in questo caso, come in numerosi altri, abbiamo visto che culturalizzare i piccoli è un ottimo mezzo per far ”risalire” la cultura in ambito famigliare. Questi libri sono un buon metodo per insegnare a leggere anche ai genitori.
La terza è il Community Literacy Projects, che cura la pubblicazione di storie create all'interno delle comunità.
Abbiamo capito che si tratta di un percorso molto lungo. Del resto i risultati raccolti fino ad oggi, hanno richiesto 15 anni da lavoro...
E' evidente che, mano a mano che le attività diventano più coinvolgenti, il numero delle comunità attive scende. Tutti i rappresentanti della fondazione hanno insistito sul fatto che un approccio rispettoso della cultura indigena è lentissimo. Una cosa che ci ha molto impressionato è stato apprendere come nei primi contatti sia determinante il silenzio. Susy ha ricordato come avesse rischiato di far franare per sempre un rapporto, a causa dell'ansia di chiedere, capire, risolvere. Ansia tipica della nostra cultura.
Il Community Literacy Projects si occupa di facilitare la scrittura e l'illustrazione di storie create dalle comunità remote. In molti casi, le storie sono scritte direttamente dai bambini e riflettono leggende tradizionali. In questo caso, i bambini sono affiancati da insegnati, volontari e autori che supportano e aiutano i piccoli autori.
A prescindere dall'ovvio entusiasmo di Suzy nel presentarci queste pubblicazioni, sono rimasto assolutamente abbagliato dalla loro enorme creatività e abbiamo sentito la necessità di fare qualche approfondimento sugli autori indigeni.
Nel 1964 fu pubblicato The Legends of Moonie Jarl, il primo libro per bambini scritto da aborigeni. Fu anche il primo libro per bambini aborigeni introdotto nelle scuole di quel tempo. La Fondazione lo ha recentemente ri-pubblicato.
The Legends of Moonie Jarl racconta le storie del popolo Butchulla, gli indigeni di Fraser Island e Fraser Coast, nel Queensland. È stato scritto e disegnato dai fratelli Butchulla, Moonie Jarl (Wilf Reeves) e Wandi (Olga Miller). Questo libro, oltre ad aprire una finestra sulla cultura di Butchulla, contribuisce all'orgoglio della comunità a livello locale e nazionale.
"Mio padre, che era un capo del Butchulla, ci ha detto molte cose la sera prima di addormentarci. Ci raccontava le storie o le leggende del nostro popolo, alcune delle quali sono simili alla fata che hai sentito quando eri giovane. Ho imparato da mio padre molte cose. "
Gli autori sono morti da tempo, ma Olga Miller ha lasciato un erede che risponde all'impegnativo nome di Glen Miller (in realtà il “nostro” Glen ha una “N” in meno del famosissimo direttore d'orchestra). Vive a Maryborough, 350 km a nord di Brisbane. Anche lui accetta di incontrarci. Oltre a tutto è un appassionato motociclista e questo apre molte porte...
Glen fa parte del consiglio direttivo dell'ILF non solo in quanto nipote della prima autrice indigena “pubblicata”, ma soprattutto perché è impegnato da una vita a preservare la cultura aborigena. Ha lavorato nell'educazione, con il governo locale nel turismo ed è attivissimo in un numero impressionante di organizzazioni indigene (oltre a possedere alcune moto davvero preziose e un cane molto simpatico).
A Glen, che ci mette subito a nostro agio, mi sento di porre una domanda sulla quale sto rimuginando da tempo: la tradizione indigena non prevede la scrittura. Non potrebbe essere che questa iniziativa comporti due differenti livelli di forzatura? Il primo è quello di passare dalla cultura orale e quella scritta, il secondo è quello di doverlo fare in una lingua che non è quella parlata nelle comunità?
Glen ci pensa un attimo e poi estrae dalla biblioteca un bellissimo libro che raccoglie una enorme quantità di pitture rupestri indigene raccolte in tutta l'Australia. Lo sfoglia e conclude: gli indigeni scrivevano eccome, solo che usavano un sistema diverso, e ci tiene una breve lezione sulle simbologie e sui significati di ogni pittura.
Va bene. Diciamo pure che sapevano “scrivere”. Resta però l'altra parte delle domanda: visto che gli aborigeni erano qui PRIMA degli “altri”, sarebbe più corretto proporre una culturalizzazione anche nei confronti dei non indigeni. Chessò: una cultura bilingue?
Glen sorride tristemente: purtroppo se gratti un po', viene sempre fuori il razzismo...
E' triste: le scuse da parte della cultura egemone suonano sempre un po' false.
Non ci resta che correre verso sud: a Sydney ci aspetta un aereo per il Canadà.