Amref a Nairobi per recuperare i bambini dalla strada
Progetto numero 9. Nairobi, Kenya.
Ho iniziato il precedente report dicendo che siamo stanchi. Detesto ripertermi, ma siamo ancora più stanchi.
Ci siamo concessi un giorno di sosta nel South Luangwa National Park ma non ci siamo riposati granché. Oltre a tutto ho dovuto superare la mia contrarietà. Non condivido i parchi nazionali africani. Li trovo luoghi in cui poche decine di animali, che dovrebbero essere “selvatici”, sono costretti a subire vessazioni di ogni tipo da centinaia di turisti rumorosi e spenderecci. Penso che i pochi luoghi intatti rimasti al mondo dovrebbero RIMANERE INTATTI e salvaguardati dal peggiore inquinamento possibile: quello umano.
Reiterato questo concetto personale e radicale, anch’io tengo famiglia e so che Anna adora queste visite. In genere ho un notevole repertorio di scuse per evitarle ma, per decenza e affetto, non posso sempre rifiutare. Perciò questa visita l’abbiamo fatta. Ovviamente è stata una sfacchinata. Sveglia a orari indicibili, ore e ore in giro per il parco e, come regalo della stagione umida, ha diluviato. Sono certo che gli animali ne sono rimasti entusiasti.
Per nulla riposati, abbiamo ripreso il nostro viaggio.
Da Chipata siamo passati in Malawi. Una notte a Lilongwe, una a Mzuzu, una a Karonga. E anche il Malawi è archiviato. Ora tocca alla Tanzania.
Abbiamo preso pioggia tutti i giorni ma, nel tratto fra Karonga e Mbeya, abbiamo subito un vero diluvio. Peccato, perché è una delle zone più belle dell’Africa. Dopo una notte a Mbeya proseguiamo verso Iringa dove incontriamo l’unico motoviaggiatore di questo continente. Da Iringa puntiamo direttamente verso Dar Es Salaam. La mattina, attraversiamo il Mikumi National Park, uno dei pochi parchi nazionali in cui si possa entrare in moto. Non è un permesso speciale rilasciato dagli animali residenti, è possibile solo perché la strada nazionale lo attraversa tutto. Animali se ne vedono pochi (nemmeno gli elefanti che avevamo visto nel 2010) però ci sono dei limiti di velocità strettissimi e il percorso è disseminato di cartelli che indicano la multa che dovrete pagare se investite un animale. Investire una Jena vi costerà 500 USD e una zebra più di 1000. Ovviamente sono informazioni rivolte gli autotreni. Se dovessimo malauguratamente investire un animale selvatico di grossa taglia sarebbe difficile esigere il pagamento della multa perché moriremmo di certo.
A Morogoro la strada cambia in peggio. Imbocchiamo la direttrice che conduce a Dar Es Salaam, il traffico si moltiplica e piove a dirotto per 250 chilometri.
Arriviamo a Dar Es Salaam stanchi morti, bagnati fradici e con la catena che fa rumori indicibili.
La durata media di catena, corona e pignone è di circa 30000 km. Noi ne abbiamo fatti quasi ventimila di più. Ho sempre fatto manutenzione con molto puntiglio ma ho finito tutti i prodotti per la cura della catena e mi devo arrangiare con quello che c’è. Cioè quasi nulla.
Decidiamo di fermarci per un giorno: potremo cercare di sistemare il problema e, se non fosse possibile provvedere, Dar Es Salaam è l’unico porto, alternativo a Nairobi, da cui si possa spedire la moto a casa. Dopo una bella seduta di manutenzione però, la trasmissione sembra in grado di proseguire il viaggio, perciò ripartiamo verso Nairobi, dove arriviamo dopo tre giorni di viaggio.
Ed eccoci qua. Nairobi è stata la porta di ingresso in Africa otto anni fa, ora sarà la porta di uscita.
Anche in Africa, otto anni non passano invano. Nairobi è cambiata. La cosa che si nota di più è la fioritura dei semafori. Quello che non si capisce è perché il “rosso” debba durare un quarto d’ora e perché, quando diventa verde, sembra diventi verde contemporaneamente per tutte le direzioni …
Poi ci sono i marciapiedi. O meglio: ora c’è un gradino di circa 35 centimetri, che separa la strada dall’area in cui si muovono i pedoni. Questa è una bellissima cosa, perché otto anni fa i “matatu” usavano il marciapiede come se fosse il terreno di caccia al pedone. Oggi, nel 2018, puoi passeggiare in condizioni di “quasi” sicurezza. Ma solo fino tramonto…
Nelle ore di luce però, abbiamo un sacco di roba da fare. Come impegno personale, dobbiamo spedire la moto verso casa. Come impegno professionale, abbiamo due progetti da visitare: gli ultimi di questo viaggio.
Siccome non siamo qui per parlare dei nostri problemi personali, torniamo ad argomenti professionali.
Nairobi progetto N° 1: Amref, Children in Need - Recupero dei ragazzi di strada di Dagoretti, baraccopoli di Nairobi in Kenya
Per prima cosa, devo dire che non si tratta di un progetto finanziato da Mediafriends ma di un progetto “finanziabile”. Si tratta di una visita preventiva, che ci mette in una posizione diversa dal solito. Per questo motivo, abbiamo una documentazione piuttosto scarna, per cui ha una certa importanza quello che ricordiamo della campagna pubblicitaria che AMREF utilizzò qualche anno fa per la raccolta fondi. Forse la ricorderete anche voi: il testimonial era Giobbe Covatta. Per la prorompente personalità di Giobbe, lo stile della narrazione e le argomentazioni utilizzate, ci aspettiamo di incontrare una ONG “molto” italiana, impegnata nell’assistenza all’infanzia con uno stile molto “mediterraneo”.
Cercando di dare un po’ d’ordine ai nostri impegni, subito dopo il nostro arrivo, facciamo una corsa all’aeroporto Wilson, dove ha sede il corriere che potrebbe occuparsi della spedizione della moto in Italia. Chiacchierando con la persona di contatto, vengono fuori i nostri compiti e, quando dichiariamo che uno di questi è incontrare AMREF, ci accorgiamo di essere passati a un livello superiore nella sua considerazione. La nostra interlocutrice ne parla con il massimo rispetto, come se si trattasse di un’istituzione e ci informa che gli uffici sono qui a pochi metri.
Beh, è strano che una ONG che si occupa dell’infanzia abbia sede in un aeroporto…
La risposta è spiazzante: è naturale che i Flying Doctors abbiano sede qui. Hanno la centrale operativa, l’hangar dove tengono gli aerei, le ambulanze e c’è anche il museo che racconta la loro storia…
Dobbiamo resettare la nostra testa. Ci troviamo di fronte a qualcosa di completamente diverso da quello che ci aspettavamo. Il nome Flying Doctors storicamente appartiene alla notissima organizzazione australiana che, per decenni, si è occupata di portare la salute negli angoli più selvaggi di quel continente.
Mi sono perso nei documenti ma sembra che AMREF sia coeva, se non addirittura precedente, all’iniziativa australiana. In tutti i casi, a qualunque delle due spetti il diritto di primogenitura, AMREF è attiva da più di 60 anni e si è costruita una solidissima reputazione.
Oggi opera in 30 Paesi a sud del Sahara, con oltre 160 progetti di promozione della salute, impiegando oltre 1.000 persone di cui il 97% africane.
Ha aerei, ambulanze, assicurazioni. Agisce sulla maggior parte dei paesi africani ed è forse l’unica organizzazione che ha diritto di libero sorvolo e atterraggio quasi ovunque. Insomma: AMREF è una corazzata nel campo della salute. Anche lo “stile mediterraneo” è completamente fuori luogo.
La differenza fra quanto ci aspettavamo e quanto abbiamo trovato è davvero grande.
Essendo, come ho già detto, una visita “preventiva”, avrà una piccola importanza nella decisione da parte di Mediafriends di appoggiare Children in Need nelle baraccopoli di Nairobi in Kenya, che ha assai poco a che vedere con aerei, ambulanze, assicurazioni e flying doctors.
Allora cerchiamo di capire perché i Flying Doctors abbiano deciso di atterrare in uno slum e di restarci.
In Kenya, su 41 milioni di abitanti, quasi 19 milioni (il 40%) vivono in povertà. Di questi, circa 8 milioni sono bambini.
A Nairobi, quelli che non lavorano (il lavoro minorile coinvolge il 15% dei bambini) passano il loro tempo sulla strada.
L’AIDS, soprattutto negli anni ’80 e ‘90, ha lasciato ottocentomila orfani di cui, solo a Nairobi, almeno 125000 sono diventati ragazzi e bambini di strada. Ma, anche dopo l’ecatombe, ci sono giovani in fuga da situazioni familiari difficili, maltrattati, abusati, esclusi da ogni forma di assistenza, costretti a guadagnarsi la vita nelle strade. Nonostante siano visibili ovunque, sono considerati oggetti privi di qualsiasi valore, tanto da essere chiamati chokora: “spazzatura”.
Dal 1999, probabilmente il periodo più nero per l’AIDS, Amref opera a Dagoretti, slum da un milione di abitanti. Un milione che cresce con un tasso del 20% annuo, perciò già oggi potrebbero essere 50 o centomila di più...
Finalmente cominciamo a ritrovarci.
Il progetto, in collaborazione con il Governo del Kenya (ed è qui che il “peso istituzionale” di AMREF ha avuto molto valore), è denominato Children in Need.
Dal 1999, appunto, AMREF si occupa del recupero dei ragazzi di strada e di bambini e adolescenti vulnerabili, utilizzando un approccio che punta, non solo al recupero dei ragazzi, ma anche a sensibilizzare la comunità e fare pressione sulle autorità per fare in modo che sia la stessa comunità a prendersene cura e favorire il reinserimento.
Nel 2011 è nato anche il “Children Village” di Dagoretti.
Uno spazio a uso dei ragazzi, situato nel centro dello slum. Posizione che lo ha fatto diventare baricentro e patrimonio della comunità.
In una spianata di fango e baracche di lamiera, i bambini trovano accoglienza, sostegno, protezione, educazione, accesso alle cure mediche (il centro di salute è proprio di fronte) e, non secondario, due pasti caldi giornalieri. Nel centro ci sono gli uffici amministrativi e di coordinamento, le aule e gli spazi destinati alla riabilitazione, laboratori artistici, un anfiteatro, la cucina e la mensa. Molto importante è il business center il cui compito è avviare i ragazzi verso attività in grado di generare reddito. Tra le attività svolte all’interno del Village c’è l’insegnamento di tecniche agricole e di coltivazione, mirate alla tutela dell’ambiente e a una corretta nutrizione. Nella realtà, le attività sono innumerevoli, ma rientrano in quelle che ci hanno presentato come “le 4 R”.
Recupero & Protezione,
Riabilitazione,
Reintegrazione,
Risocializzazione & Advocacy.
Il Recupero inizia nelle baraccopoli di Dagoretti, ma non solo. Gli operatori identificano i bambini in situazioni difficili, cercando di farli entrare nelle attività e/o nei servizi offerti dal centro. L’obiettivo è quello di coinvolgerli nel percorso che può includere cura, disintossicazione, riabilitazione e, comunque, dà accesso ai loro diritti. Dopo un colloquio preliminare, che include la visita alle famiglie di origine, il caso viene valutato e ammesso al programma.
Riabilitazione. Si tratta di attività psicomotorie, preparazione alla scuola, educazione di base, sviluppo delle capacità personali, teatro, musica, danza, poesia, conoscenza dei diritti personali.
Nelle attività di Riabilitazione sono compresi: assistenza sanitaria e psicologica, programmi nutrizionali, recupero scolastico e avviamento professionale. Attività certo strategiche, ma che rischiano di essere piuttosto noiose…
Per questo sono state affiancate da altre, decisamente più divertenti, come corsi d’arte, disegno, cucina e giardinaggio e corsi di video-fotografia, teatro e musica. Questi ultimi hanno riscosso un notevole successo attirando molti giovani interessati.
Naturalmente, le attività che richiamano il maggiore interesse sono quelle sportive. Quella che richiama il maggior numero di entusiasti praticanti è lo street football. Richiede poco spazio (abbiamo assistito ad un torneo: nello spazio di un campo di calcio regolamentare, trovano posto 6 campetti), ha una elevatissima rotazione (la partita dura 15 minuti) e richiede una forma fisica quantomeno brillante, che obbliga chi lo voglia praticare a rinunciare ad ogni tipo di droga. Le regole? Difficili da comprendere: il ragazzo che ha tentato di spiegarmele aveva rinunciato agli additivi da troppo poco tempo e faceva un po’ di confusione. Il divertimento generale era un po’ inficiato dal fatto che, al fischio d’inizio di tre partite, si è trovato solo un pallone…
Ma, anche con queste falle organizzative, è evidente la sua grande funzione socializzante.
Le attività di Reintegrazione oltre al supporto professionale, psicologico e scolastico, coinvolgono anche la famiglia di origine e le istituzioni.
Le attività di Risocializzazione & Advocacy coinvolgono l’intera comunità, con la formazione di leader comunitari, operatori sanitari, insegnanti e all’organizzazione di attività per i rafforzamento dei legami comunitari e con le istituzioni, come tornei sportivi, spettacoli teatrali ed ogni tipo di evento.
Insomma: il menù è molto ricco e si rivolge ad un target molto variegato: ragazzi vittime del lavoro minorile e/o che per sopravvivere devono “arrangiarsi”, ragazzi abbandonati e trascurati, orfani, ragazzi con problemi di droga o alcolismo, vittime di abusi sessuali o fisici, madri adolescenti e ragazzi che hanno problemi con la giustizia.
Un elenco completo delle disgrazie umane che però ci mette di fronte a un paio di riflessioni molto illuminanti. La prima è che questa iniziativa è attiva da quasi vent’anni e che ha avuto la forza di diventare un riferimento stabile. La seconda è che molti degli operatori più acuti e competenti, hanno iniziato a frequentare il centro da assistiti.
Questo, secondo noi, è il più grande indicatore di successo…