Charity Report

La cooperazione sociale in Namibia

Happydu e altri piccoli progetti per bambini, adolescenti e ragazze madri

28 Giu 2018 - 10:24
 © in-concessione

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Da Capetown partiamo verso nord. Non va tutto benissimo.

Per prima cosa ci siamo dovuti scontrare con la burocrazia di stampo modernista/anglosassone per sottoscrivere la solita, obbligatoria ma difficilissima da fare, assicurazione.
Per trovarne una, abbiamo seguito una tattica del tutto priva di tattica. Siamo andati in giro per la città chiedendo aiuto a tutti quelli che avevano a che fare con il “mondo moto”. Il contatto giusto ci è arrivato da un noleggiatore che ha telefonato alla sua compagnia di assicurazione.

A questo punto voi direte: trovato il contatto, il resto è stato facilissimo. Errore. La cosa è andata avanti per giorni, con decine di telefonate fra me e il signor Nando Mazibuko, che sta a Johannesburg. Mi ha chiesto di tutto (incluso un controllo tecnico della moto presso uno degli uffici preposti), ha rifatto la polizza almeno tre volte e, alla fine, anche se avevo pagato, mi ha chiesto di avere come garanzia un conto corrente sudafricano. Conto che non avevo, non intendevo fare e, per dirla tutta, non serviva a niente, visto che in caso di mancato pagamento, la polizza sarebbe stata annullata. Però senza il conto non si poteva considerare la polizza attiva. Non mi è restato che chiedere al responsabile del CESVI di darmi i dati del SUO conto corrente. Colgo l’occasione per ringraziarlo e confermare che ho annullato la polizza appena passata la frontiera. Ovviamente la questione “assicurazione” si è ripresentata appena entrati in Namibia, due giorni dopo.

Gli altri problemi sono stati: un avventuroso cambio di gomme (il gommista ha cercato di smontare la ruota anteriore senza smontare le pinze dei freni, facendo uscire le pastiglie che poi non sapeva rimettere a posto, ha montato il pneumatico anteriore alla rovescia e la ruota posteriore fuori asse) ed enorme raffreddore accompagnato da febbre, tosse e brochite. Sintomi, durati molto oltre il normale.

Con l’assicurazione, gli pneumatici e le ruote rimessi (personalmente) a posto, e la salute completamente andata, siamo partiti verso nord. Da Capetown a Windhoeck ci sono circa 1500 km di strada diritta e completamente vuota. A causa dei problemi di siccità, le coltivazioni a nord di Capetown sono completamente bruciate. Poi si entra nel deserto e di coltivazioni non se ne parla più.

L’Northern Cape è una zona desertica. Vanrhynsdorp e Springbok sono piccolissimi centri abitati persi nel vuoto ma, una volta attraversata la frontiera con la Namibia, il deserto diventa un VERO deserto. Solo qualche cespuglio su una spianata che si perde piatta e uguale in tutte le direzioni. Grunau, Mariental. Centri abitati deprimenti e solitari con il quartiere “bianco” in cui ci sono un paio di B&B e un piccolo e tristissimo supermercato che sta esattamente sul confine fra la zona “bianca” e quella “coloured”.

Qualche notizia generale su questa nazione, conosciuta solo per i suoi parchi nazionali. La popolazione è di circa 2 milioni di abitanti. Avendo un'estensione di più di 820000 km², la Namibia si colloca al secondo posto fra le nazioni meno abitate del mondo: solo 2,5 abitanti al chilometro quadrato. Il territorio è in gran parte costituito dai deserti del Kalahari e del Namib. Il suo nome deriva da quest’ultimo deserto ed è stato scelto per evitare diatribe tra le varie etnie.
Dal 1884 al 1919 è stata colonia dell'Impero tedesco. Successivamente (fino al 1961) è stata parte dell'Impero britannico tramite l'Unione sudafricana e poi, fino all'indipendenza, provincia della Repubblica Sudafricana. Solo nel 1990 ha ottenuto l'indipendenza dal Sudafrica dopo una lotta di indipendenza condotta dall’organizzazione denominata SWAPO, fin dal 1966. Ancora oggi però il Sud Africa è un vicino ingombrante. Quasi tutti i beni necessari per la sopravvivenza arrivano da lì e il Rand è accettato ovunque, in sostituzione del dollaro Namibiano, con il cambio 1 a 1. Questa condizione che non è però riconosciuta in Sud Africa, dove il dollaro non è accettato. Insomma: il Sud Africa ha lasciato il controllo politico della Namibia molto contro voglia ma non ha rinunciato al controllo economico.

La principale attività economica namibiana è quella mineraria, che vale il 20% del PIL. Questo settore però dà lavoro solo al 3% della forza lavoro. Oltre la metà della popolazione perciò si dedica all'agricoltura e all'allevamento di pura sussistenza. La produzione agricola, vista l’aridità del territorio non copre il fabbisogno nazionale e oltre il 50% viene importato (come dicevo) dal Sud Africa.
Il reddito (medio) pro-capite della Namibia è cinque volte più alto di quello dei paesi più poveri dell'Africa, ma la maggioranza della popolazione vive in condizioni di estrema povertà a causa della forte disoccupazione, una pessima distribuzione della ricchezza, e della grande quantità di capitali che vengono investiti all'estero.

Dire “pessima distribuzione della ricchezza” è una formula talmente abusata da essere quasi priva di effetto, perciò provo a renderla più plastica con qualche dato.  La popolazione bianca è solo il 2% ma produce il 70% del PIL, mentre il 60% vive con meno di 2 dollari al giorno. I casi HIV positivi sono circa il 20% e, anche per questo motivo, un terzo dei giovani sotto i 15 anni di età, è orfano. Il 40% dei nuovi nati non supera il 5° anno di età e quasi il 20% della popolazione è analfabeta.

Per chiudere il capitolo “informazioni generali” aggiungo che i dati che ho pedissequamente elencato sono ottimistici perché nelle zone più povere e rurali, la popolazione non è censita…
Con queste informazioni alle spalle, arriviamo a Windhoeck. E’ una città piuttosto grande, pulita, con qualche palazzo alto più di tre o quattro piani e costellata di centri commerciali. Insomma: una città piacevole, almeno finché si rimane nella ristretta zona centrale.

Poi ci sono le township.

Se dico township, tutti pensano al Sud Africa. La Namibia è considerata esterna a questo fenomeno. Qualche ragione per questa convinzione c’è. E’ difficile immaginare dei formicai come quelli che ci sono alla periferia di Cape Town o di Johannesburg, in una nazione sconfinata e quasi completamente vuota. Invece ci sono. A qualche chilometro dal centro di Windhoeck si stendono enormi township. Decine di migliaia delle solite baracche in lamiera ondulata che brillano al sole. L’unica differenza è la distanza fra una e l’altra. Qui non ci sono problemi di spazio perciò le baracche sono sparse sulle polverose colline che si stendono attorno alla città. Fatto salvo un maggiore spazio vitale, le condizioni di vita sono anche peggiori. Più spazio vuole dire più distanza per raggiungere la fontanella a cui tutti devono fare scorta d’acqua. Vuole dire che, se ci sono, i gabinetti sono lontanissimi. Le strade asfaltate sono distanti chilometri. Scuole e servizi sono irragiungibili.

Dobbiamo incontrare Emiliano.

Emiliano è il classico europeo (come triestino sarebbe più corretto definirlo mittel-europeo) colpito da un’inguaribile forma di mal d’Africa.

Non è un operatore del terzo settore. E’ un imprenditore nel settore turistico e si è stabilito in Namibia da molti anni, con un certo successo. Sarà che è una persona sensibile, sarà che sente il dovere di “restituire” al paese che lo ospita una parte della sua fortuna. Sarà che, nella sua posizione di “ospite”, sa che l’impegno sociale è senz’altro gradito. Probabilmente per un mix, senz’altro corretto, di tutte queste motivazioni, si è impegnato in una serie di attività a favore delle classi più disagiate. In realtà non è l’unico protagonista di questi progetti. L’iniziativa (nata con il nome di Mammadu e, dopo l’unione con Litte Treehouse, ha cambiato il suo nome in Happydu) è stata costituita da una coppia d’italiani, non presenti al momento della nostra visita, che hanno iniziato qualche anno fa a raccogliere fondi per interventi di aiuto.

Le attività sono principalmente (ma non solo) indirizzate al sostegno dell’infanzia, adolescenza e delle ragazze madri.

Fra il 2010 e il 2018 sono stati sviluppati 18 progetti in questa direzione.  A parte uno, il più importante, che ha portato alla costruzione dell’Happydu Village, si tratta di interventi piccoli. A volte piccolissimi. Mentre ne visitiamo alcuni, Emiliano cerca di comunicarci la strategia che li unisce.

Little Vikings o Clever Boys, sono scuole e asili che sono nati spontaneamente nelle zone più disagiate di Windhoeck. Il loro compito è quello di dare rifugio, protezione e formazione ai bambini in zone in cui non esisteva nulla del genere. Sono le stesse famiglie delle township a realizzarle. Ovviamente, trattandosi di famiglie che vivono nella più nera povertà, tutto viene realizzato in economia. Il risultato perciò è spesso inadeguato perché la buona volontà da sola non basta. In questi casi Happydu è intervenuta realizzando piccoli investimenti strutturali. Aule in muratura, bagni, serbatoi per l’acqua, recinzione…

In sostanza, quelle piccole cose essenziali che le famiglie non potrebbero mai realizzare. Emiliano descrive il compito con poche parole: si tratta di sostenere i costi di start up, senza avere il problema di recuperarli. Una volta che la struttura è in grado di eseguire il suo compito, si mantiene da sola. Le famiglie pagano una retta ridicolmente bassa, ma sufficiente per mantenere gli insegnati e (non sempre) a fornire un paio di pasti ai bambini.

A proposito di pasti. Una delle nostre visite coincide con la merenda. Un centinaio di splendidi bambini sta consumando, in tazze di plastica, il porridge. Si usa il termine inglese per indicare un composto che sta a metà fra il semolino e la polenta. Com’è? L’abbiamo assaggiato e non è male, ma vi posso assicurare che nessuno dei nostri bambini farebbe un passo per averne una porzione. Non ostante ciò, i cento bambinetti la mangiano coscienziosamente pulendo con cura la tazza. Alla fine dalla cucina esce il pentolone. Sul fondo sono rimasti degli avanzi. Il pentolone viene messo a terra. Chi ne vuole ancora...

Su 100 bambini, circa 80 rimangono seduti. Sono i più piccoli, le bambine, e forse quelli più timidi o meno affamati. Ce n’è anche uno che tutte le volte che mi vede scoppia a piangere. Evidentemente il mio aspetto lo terrorizza così tanto che non pensa altro che a me.

Il problema sono gli altri 20. Con il cucchiaio in mano, si gettano sulla pentola. Si scatena una vera rissa e alcuni hanno uno sguardo che non riuscirò a dimenticare. La faccenda si risolve in qualche minuto. Prima che le maestre li separino, il pentolone è completamente pulito. I lottatori hanno tracce di porridge perfino nei capelli.

Ma torniamo al nostro compito. Spulciando i conti si può verificare che si tratta di investimenti molto, molto piccoli. In sostanza si tratta davvero di “dare un piccolo ma risolutivo aiuto” a fondo perduto.

Completamente diverso è l’Happydu Village, che vuole essere un compound omnicomprensivo.

Nel centro trovano posto una struttura per il sostegno delle ragazze madri, una scuola professionale, un asilo pre-primary school, una biblioteca, assistenza allo studio e un centro sportivo e ricreativo. Insomma: un progetto grosso, che c’è l’intenzione di replicare. Happydu village c’è e funziona.

Qui sento il dovere di fare qualche riflessione. Sono ormai diversi anni che visitiamo progetti di cooperazione in giro per il mondo. L’esperienza ci ha portati a considerare più utili gli interventi “forti” e “strutturati”. Insomma: quelli sostenuti e implementati con grandi strategie, fondi, operatori preparatissimi e grande peso politico. Poi ci siamo trovati qua.

Devo dire che i piccolissimi “18 progetti” ci hanno colpito anche di più del villaggio. Forse semplicemente perché hanno seguito una filosofia elementare: hanno sostenuto le esigenze “di base”. Si sono occupati di aiutare la popolazione a realizzare qualcosa “che stavano già realizzando”. Nulla sembrava paracadutato dall’alto e la partecipazione era entusiasta.

Forse è questo il vero significato della cooperazione…

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