Charity Report

La rendicontazione in moto attorno al mondo

un lungo viaggio per scoprire come sono stati spesi i fondi raccolti da Fabbrica del Sorriso

24 Set 2018 - 16:02
 © in-concessione

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Uscire dall'india non è stato facile, e partiamo per il nostro viaggio in Myanmar già piuttosto provati. Sul furgone viaggiano Anna, il titolare dell'agenzia turistica che ci ha fatto avere i permessi, la guida, l'autista (fratello del titolare) e un ufficiale della polizia turistica.

Moreh - Kalay 130 km
La strada è un viottolo di campagna, il traffico è quasi inesistente, il percorso tortuoso e la pioggia cade a dirotto. Il viaggio prosegue molto lentamente. 
Siamo ai tropici in inverno: la giornata è molto corta. Alle 17, quando arriviamo a Kalay, è già buio pesto ma non ha smesso un istante di piovere. Ci portano in un albergotto squallidotto e il team Siamese ci saluta, indicandoci un paio di ristoranti dove andare a mangiare. 

Cenare è piuttosto complicato. La popolazione è cortese ma piuttosto distaccata e nessuno parla quel poco di inglese che sarebbe indispensabile. Così, non capendo nulla del menù, ci piazziamo davanti alla cucina indicando quello che vogliamo mangiare. Il problema è che, se indichi la carne, te ne portano una scaglia della dimensione di un'unghia. In un piatto desolatamente vuoto, galleggiano tre o quattro pezzettini di qualcosa. Usciamo ancora più affamati di quando siamo entrati. Torniamo nella stanza in cui siamo accampati. Ci sono cose stese ad asciugare dappertutto e fuori continua a piovere. 
Kalay - Monywa 255km

Ho già sperimentato che, se mi metto la tuta antipioggia a “scopo preventivo”, non piove. Perciò, nell'interesse di tutti, me la metto. Come sempre, la cosa funziona. Faccio la sauna tutto il giorno ma non cade una goccia. 

Il paesaggio è piacevole, la benzina si trova facilmente e la strada è in condizioni decenti, tortuosa e piena di piccoli saliscendi.  Tornando alla gente: la cosa che si nota di più è che tutte le donne e i bambini hanno la faccia curiosamente impiastricciata. La guida ci informa che si tratta di un preparato vegetale che serve principalmente per proteggersi dai raggi del sole. Insomma, una bella abbronzatura non è considerata elegante.

Visto che siamo piuttosto affamati (in tre giorni ho fatto tre pasti) insistiamo per una sosta-pranzo. Ci fermiamo in una casuccia di bambù. Sul retro si apre una terrazza pericolante che dà sulla valle. La guida suggerisce di pranzare “a buffet”. Perché no? Potremo assaggiare di tutto e mangiare solo quello che ci piace. E' una scoperta: se riesci a ordinare, Myanmar ha una cucina ottima. 

Arriviamo a Monywa che è già quasi buio. Costeggiamo un lago, ma non si vede quasi nulla. L'albergo è fin troppo lussuoso: piscina, club house. Per la cena, tutto si svolge come il giorno precedente: gli accompagnatori se ne vanno e ci indicano dove mangiare: lungo il lago ci sono decine di ristoranti. Quello che scegliamo sembra meglio di quello di ieri, ma il risultato è quasi lo stesso. Dobbiamo migliorare la nostra capacità di ordinare... 

Monywa - Mandalay 131 km
La mattina ci spetta una colazione pantagruelica (per la quarta volta siamo andati a letto senza cena...),dopo la quale ci sta bene una piccola riflessione. 
È evidente che lo spiegamento di forze che ci accompagna ha il compito di farci vedere “tutto e solo” quello che la “giunta” (e la “lady”) ha voglia di farci vedere. Perciò non si parla delle pulizia etnica a spese dei Rohingya (sembra che nessuno ne sappia nulla, come sembra non sappia nulla della situazione internazionale e nemmeno di quella della provincia confinante). In compenso, è fin troppo evidente che esiste un legame fortissimo fra il clero buddista e la “giunta”. 
Myanmar è costellato di pagode (molte di nessun valore storico e artistico) ma DEVI VISITARLE TUTTE. 

Oggi ci tocca il tempio Thambuddhei Paya. Ha (scusate la crudeltà) come unico punto di interesse, quello di essere ornato da una quantità allucinante di statue di Buddah. Qualcuno, pazzo come il costruttore, si è preso la briga di contarle: dovrebbero essere più di 500000. Mezzo milione di Buddah. Alti dieci metri o dieci centimetri. La nostra  guida (un ragazzo molto simpatico) si sforza di farci apprezzare l'opera. La cosa è piuttosto difficile, ma almeno capiamo che la posizione del Buddah ha sempre un significato, che si può nascondere anche nei particolari più minuti, come la posizione delle dita... 
Dopo il tempio con mezzo milione di Buddah, ci tocca il piatto forte. A mezz'ora da Monywa ci sono altri Buddah. In questo caso però, non si è puntato sulla quantità. 
Meno male: se non hanno puntato sulla quantità, saranno Buddah “di qualità”. 

No. Si tratta dei Buddah più grandi del mondo. Il più visibile è, se lo vogliamo definire così, un grattacielo di una trentina di piani “travestito da Buddah”. Lo si capisce perché il mantello dell'enormità è costellato di finestre. Per magnificare l'impatto sul visitatore, è piazzato in cima a una collina, alla fine di una monumentale scalinata. Costretti a vederlo sempre dal basso, sembra ancora più imponente. A poca distanza ce n'è anche uno sdraiato. Dopo il Buddah più alto del mondo non restava che costruire anche quello più lungo. I ragazzi tentano di  visitare il “Buddah alto” ma tornano subito perché non c'è l'ascensore. Forse c'è anche un terzo Buddah (seduto?) ma visto lo scarso interesse pensavo ad altro...

Il resto della giornata si svolge come da copione e arriviamo a Mandalay, una delle storiche capitali del Siam, piuttosto presto. Mezz'ora di riposo e poi si va al lago, attraversato dal più lungo e più antico ponte di tek del mondo. Il ponte è lunghissimo e compie un arco che collega la città a un paio di isolotti e, forse, si ricollega alla città su un altro lato del lago. Non posso confermarlo, perché la distanza è ragguardevole. Notizie dal nostro accompagnatore: il ponte ha almeno 500 anni e i pali che lo sostengono sono in gran parte della struttura originale. La passerella su cui camminano i visitatori viene costantemente rinnovata, visto il notevole consumo che milioni di passi le provocano. In effetti il ponte è pienissimo. Effetto collaterale della visita: la possibilità di vedere un tramonto in Technicolor sul lago e di riempirsi lo stomaco alle bancarelle.

Mandalay – Bagan   180 km
La guida si fida di me, perciò posso viaggiare liberamente da un meeting point all'altro. Purtroppo  è sempre molto reticente nel darmi il punto di arrivo. So che passeremo la notte a Bagan, ma non dove. All'utimo meeting point mi hanno detto che “se seguo la strada non posso sbagliare”. 
Così seguo la strada per un po' ma non identifico il punto d'incontro successivo e non mi resta che fermarmi ad aspettare. E' una bella giornata di sole. Ci sono 36 gradi, umidi, senza un filo d'aria e pieni di insetti. Aspetto più di un'ora. Visto che dall'ultima sosta ho viaggiato non più di 50 km, vuol dire “se seguo la strada non posso sbagliare”. Non mi resta che mettermi in comunicazione con il convoglio. Mando un SMS dicendo che mi trovo a pochi metri dal tempioX, e aspetterò che mi vengano a prendere. Aspetto 40 minuti e, appena arrivano, chiarisco che, da oggi, mi verrà comunicato il punto GPS di ogni destinazione, un giorno prima. 

Ma torniamo a Bagan. In questa pigra vallata, sbocciamo decine (forse centinaia) di templi costruiti, nel corso dei secoli, da tutte le dinastie che hanno regnato sul Siam. Non so perché abbiamo scelto proprio questo punto del regno, ma l'effetto è affascinante. Le antiche dinastie utilizzavano architetti decisamente più creativi di quelli che la giunta utilizza per le pagode “in serie” e i “Super Buddah”. Ogni tempio ha le sue particolarità e la sua epoca. Passiamo il pomeriggio e la serata a visitarli e scattare a più non posso, Credo che i nostri accompagnatori non capiscano perché preferiamo queste rovine ai grattacieli dorati a forma di Buddah. Cercano di farci visitare il tempio “più grande”, “più recente” o “peggio restaurato” e mai”il più bello” o “il più antico”. Comunque c'è fin troppo da vedere e decidiamo di ritardare la partenza di qualche ora per completare la visita. 

Bagan – Taunggyi (Inle lake) 350 km
Sveglia, colazione e seconda parte della visita a Bagan, con il sole in posizione più favorevole. Partenza verso le 10: fa già molto caldo. Ho punto di arrivo e il percorso sul GPS, ma abbiamo fissato due meeting-point intermedi: un “autogrill” a 150 km e il ristorante YYYY a il pranzo. Entrambi, lo scoprirò a mie spese, hanno un locale omonimo a poche centinaia di metri, perciò ci perdiamo entrambe le volte... Segue altro chiarimento sulla necessità di  di fissare punti di ritrovo “univochi”. 

Dopo 150km abbastanza noiosi, la strada comincia a inerpicarsi nelle montagne. Il paesaggio è splendido. Purtroppo ci sono anche parecchi camion che si arrampicano con una lentezza esaperante ma, anche così, mi godo le tre ore che servono per arrivare in cima. Dal passo scendiamo vertiginosamente per circa un'ora. Poi deviamo a sinistra verso il lago e arriviamo, finalmente, a Tuanggyi. 
Il lago Inle è famoso per essere il secondo lago di Myanmar e per avere una serie di curiosi insediamenti “flottanti”. Insomma: è cosparso di villaggi che non si capisce se galleggiano o si reggono su palafitte. Probabilmente, secondo i casi, sono vere entrambe le cose.  

Il mattino seguente, sotto un cielo incerto, ci avviamo al porto, saliamo su una lancia lunga lunga e stretta stretta. Indossiamo i giubbotti salvagente e iniziamo a sudare copiosamente e in pochi minuti siamo in “lago aperto”. Indubbiamente è bello. Vediamo qualche barca di pescatori. Quando ci avviciniamo, si mettono nella posizione che ogni turista che si rispetti desidera: in bilico su un solo piede. L'altro serve per manovrare il remo, un braccio per usare la rete da pesca e l'altro per mantenere l'equilibrio. Visti da lontano, sembrano crocifissi sulla prua. Certo è che, appollaiati sulla poppa della barchetta sullo sfondo del lago perfettamente piatto, sono molto decorativi. Navighiamo per circa un'ora per incontrare i primi insediamenti, circondati dagli orti. Non ostante le spiegazioni della guida non ho capito granché sul “come si reggano, orti e villaggi, sull'acqua del lago. Per le case qualche idea ce l'ho: il lago non è profondo, perciò la maggior parte si regge su palafitte. Gli orti invece sono tutt'altra cosa. Quando passa la nostra barca, l'intero campo comincia a ondeggiare. Per raggiungere i villaggi ci si deve addentrare in canali fra gli orti sempre più stretti. Ci sono case, negozi, magazzini, scuole, ancheun supermercato. Tutto di legno e tutto sospeso qualche metro sull'acqua. 

Come in ogni gita organizzata, ci sono dei risvolti commerciali. Il laboratorio di gioielleria “tradizionale”, la tessitura “tradizionale”, la fabbrica di sigari “tradizionale” (non ho capito di cosa siano fatti i sigari), il cibo “tradizionale”. Non ricordo più quali altre attività ”tradizionali” ci siano state somministrate, sottolineando che se non avessimo comprato “qui”, non avremmo mai più trovato gli stessi articoli altrove. Del resto è un gioco piuttosto comune: ti danno qualche sommaria spiegazione storico-antropologica e sperano che pagherai caro qualche ricordino. Comunque non intendo demolire la visita: Inle Lake è molto bello e, se non ci sono altri modi di visitarlo, questa maniera va benissimo. Non può mancare la visita a qualcuna della pagode che  galleggiano qua e là.  La più interessante arriva nel pomeriggio. E' una struttuta in legno scuro con una lunga storia piuttosto fantasiosa. Però è bella, tranquilla (forse perché ci arriviamo quando le altre barche cariche di turisti sono a pranzo) e rilassante. Attorno c'è il lago, fa caldo e piove leggermente. Noi siamo al riparo, seduti su un pavimento di ottimo legno locale, circondati dai gatti che la popolano e che hanno una parte rilevante, anche se incomprensibile, nella sua storia. Il ritorno lo facciamo sotto la pioggia. Fra la pioggia e gli spruzzi provocati da una navigazione a tutta velocità arriviamo bagnati fradici. 

Tuanggyi – Naypyidaw 280 km
Pioviggina. Dobbiamo ritornare sui nostri passi, rifare il passo percorso l'altro ieri fino quasi “all”autogrill” dove ci siamo persi la prima volta. 
Poi, non potendo percorrere l'autostrada (vietata alle moto e ai veicoli commerciali), dovremo prendere una statale parallela verso sud, per circa 150km. Solo nell'ultimo tratto ritorneremo sul percorso dell'autostrada.

Avendo il punto GPS della destinazione, viaggio tranquillino a 70/80 all'ora. Siamo sulla direttrice che taglia il paese da nord a sud e mette in comunicazione Mandalay, Naypyidaw e  Yangoon. 
Attraversando decine di cittadine molto congestionate ho la possibilità di studiare lo stile di guida locale: se arrivi da una via laterale e ti devi immettere sulla direttrice principale, LO FAI. Lo fai senza guardare se arriva qualcuno e lo fai percorrendo una curva bella larga, che ti porta a occupare per bene tutta la corsia su cui ti stai infilando.  
Perciò occorre fare attenzione a:
A) a quelli che si immettono senza dare la precedenza
B) al camion davanti a te, che va a tutta birra e inchioda perché ci sono quelli che si immettono senza dare la precedenza
C) a quelli che si immettono senza guardare e ti speronano
D) a quelli che si immettono senza dare la precedenza sull’altro lato della strada ma lo fanno per prendere la tua direzione. 
Conclusione: devi fare attenzione a davanti, a destra e a sinistra. Converrebbe fare attenzione anche dietro: se freni all'improvviso, c'è la seria possibilità che il bus che ti segue ti passi sopra, ma non si può fare tutto.

A 50 km da Naypyidaw ci si può infilare in autostrada. Il cambio è piuttosto spettacolare: da una corsia per senso di marcia a 4. Sembra di viaggiare sulla pista di un aeroporto. L'autostrada si snoda decorativamente fra le colline verdeggianti. Quando scende è sempre attraversata da un piccolo corso d'acqua. Se ho capito bene, non si è scelto di far passare la strada “sopra” i corsi d'acqua (fenomeno definito “ponte”) ma si è deciso di farla passare “sotto” (fenomeno definito “guado”). Ci va bene perché non piove, ma nella stagione umida è tutta un altra storia.
Naypyidaw è la nuova capitale. Fare nuove capitali è lo sport nazionale Siamese. Ogni dinastia si è fatta la sua, e anche la “giunta” ha deciso di farsene una. Ho il sospetto che nostra visita a Naypyidaw abbia l'obiettivo di farci vedere quanto di bello e di buono sia stato fatto in mezzo secolo di potere. Una visita politica.

Viaggio lungo rettilinei infiniti e rotonde del diametro di 500 metri, fino ad arrivare “al viale degli alberghi”. Per una decina di km, c'è un albergo ogni 500 metri. 
Il nostro albergo è il settimo o l'ottavo. Mi infilo sotto l'arco d'ingresso (ce l'hanno tutti), attraverso il parcheggio (ce l'hanno tutti) e mi infilo sotto il porticato (ce l'hanno tutti, ma ognuno è diverso).
Parcheggio, entro e mi presento. Mentre aspetto,  arriva una pattuglia della polizia e mi chiedono il passaporto. Poi vanno a confabulare con la reception: evidentemente parlano di me. Mi ridanno il passaporto e escono, ma si piazzano appena fuori e nelle vicinanze della moto. Quando arriva il resto del gruppo, il “nostro” ufficiale della polizia turistica si precipita a parlamentare. Al termine della trattativa ci spiega che “essendo ospiti di riguardo, avremo la scorta della polizia ovunque in città”.

Qui ci sarebbero da fare alcune riflessioni. La prima è che questa “cosa” in mezzo al nulla non è, e non sarà MAI una città. E' inutile fare viali sempre più larghi (quello qui davanti ha 8 corsie per senso marcia) assurdamente vuoti. Spargere per queste colline palazzi ministeriali, che contengono anche le abitazioni degli addetti, indica solo che schiodare qualcuno dei suddetti dalla propria carica sia del tutto impossibile e che, in ogni compound, ci sia una compagna dell'esercito “residente”  rende la mia tesi ancora più convincente. 
Insistiamo risolutamente che una scorta di 3 addetti, è sufficiente a garantire la nostra sicurezza. Il nostro punto di vista è fonte di una lunga trattativa. Insistono che non si tratta di sicurezza, ma di “importanza dei visitatori” ma alla fine ne usciamo vincenti. La polizia se ne va. 

Riposino, doccia e giretto per l'assurdità urbanistica dal tramonto in avanti. Nell'ordine: supermarket (perso in mezzo al nulla), ristorante (perso in mezzo al nulla),  pagode (due identiche, ugualmente dorate, diverse in altezza per una trentina di cm), elefanti sacri (in preda a evidente crisi depressiva), ultima pagoda (uguale alle altre, solo un poco più alta). Unico aspetto divertente: per accedere a quest'ultima occorre mettersi la gonna, che i nostri accompagnatori indossano con grande eleganza. 
Bene,  per accedere alla pagoda “finale”, devo indossare la gonna anch'io. 
Me la sistema l'ufficiale della polizia turistica: ti ci devi calare dentro e poi girare i bordi superiori in modo che non caschi. Devo dire che faccio la mia figura, anche se passo la mezz'ora successiva a tenerla su con le mani, rischiando di rimanere in mutande ad ogni passo. Torniamo in albergo lungo viali desolatamente vuoti. La guida insiste che i terreni qui attorno stanno crescendo di valore in maniera esponenziale...

Naypyidaw - Pegu / Yangoon. 305 km
Abbiamo insistito per vistare Yangoon, che non era prevista nel tour. La cosa è complicata perchè, a Yangoon, le moto non possono circolare. Deve essere un bel problema per la popolazione residente: la motoretta è il veicolo tradizionale dell'estremo oriente. 
Comunque siamo in moto e vogliamo visitare Yangoon, perciò non resta che una soluzione: lasciare la moto a Pegu, nella stazione di polizia, e proseguire sul furgone. 
Uscire da Naypyidaw è piuttosto problematico. Ieri siamo entrati percorrendo l'autostrada, ma oggi non la possiamo usare per uscire. Forse è perché abbiamo rifiutato la scorta... 
Al primo incrocio, la polizia mi costringe a uscire dalla sede stradale e proseguire per parecchi km viaggiando nelle aiuole, fino a una connessione che mi consente di ri-imboccare la strada “aperta a tutti”. Arrivo a Pegu e scopro che ci sono 2 stazioni di polizia (come al solito),mi fermo davanti alla prima (come al solito), e aspetto un'ora (come al solito).

Quando arriva il convoglio, entriamo nella stazione di polizia (che non è la prima ma la seconda), parcheggio la moto, scarico i bagagli e andiamo a Yangoon. 
Yangoon è la città dei miei sogni. E' la città dove andrei a nascondermi se fossi ricercato dalla mafia russa. Un insieme di palazzi lussuosi e mercati schifosi. Umida, calda, lussuosa, ammuffita, elegante, esotica, crollante, sporca e appetitosa. La scorta torna in famiglia (abitano tutti qua) e noi usciamo. Cominciamo a passeggiare a casaccio, seguendo il flusso della gente e arriviamo al night market, a ridosso del porto. Una infilata di bancarelle che vendono solo cibo. Ognuna ha davanti qualche tavolino. C'è di tutto. Insetti grossi come gamberi, gamberi grossi come aragoste. Non ci sono aragoste. Poi c'è maiale cucinato in modi sui quali è meglio non indagare, molluschi, frutta, verdura, carne di manzo, carne “che non si capisce”... Dolci, pane... 
Mangio di tutto, salvo quello che non mangerei mai “per principio”. Quando scopro che qualcosa è molto buono, ritorno alla bancarella che me lo ha venduto e ne compro altre due porzioni, Unica regola: che lo possa mangiare anche Anna (se poi decide che le fa schifo, sono affari suoi...). Raramente abbiamo passato una serata così piacevole, infilati nella calca, sotto la pioggia, sul marciapiede stretto e bagnato. Torniamo in albergo verso mezzanotte; stanchi ma felici.

Yangoon / Pegu - Kyaiktiyo 210 km
Con l'aiuto del responsabile dell'agenzia che ci ha organizzato la visita in Myanmar, cerchiamo di capire come siamo messi con il permesso thailandese. Da quest'anno (dopo il colpo di stato strisciante avvenuto dopo la morte dell'amatissimo re) per entrare i Thailandia con un veicolo, occorre chiedere un permesso, costoso, complicato ed essere accompagnati da una guida. 
Anna ed io,  ci stiamo lavorando da mesi e abbiamo sottoposto l'invio del saldo (che dovrebbe includere il lavoro burocratico, guida e alberghi per tre giorni) all'arrivo del permesso alla nostra mail: niente permesso, niente soldi.
Il problema è che il permesso non è arrivato nella data prevista, dobbiamo passare in Thailandia dopodomani e la responsabile dell'agenzia thailandese non si fa viva. 
Perciò mando una mail pepatissima a “miss Thip” della Aran Sisophon Travel. 
Finalmente la stano. Sorry, sorry sorry: a causa della cremazione del defunto Re, gli uffici pubblici sono chiusi e pertanto il permesso arriverà con tre giorni di ritardo. 
Ho 200 motivi per arrabbiarmi. Miss Thip mi ha martirizzato per tre mesi chiedendo copia di tassa di circolazione italiana, assicurazione, fotografie della moto carica e scarica. Mi ha scritto  di inviarle la traduzione di tutti i documenti in inglese, cosa che ho fatto e per la quale mi ha chiesto di essere pagata, mi ha chiesto di crearle un corridoio preferenziale con l'Ambasciata IItaliana di Bangkok per far ufficializzare la traduzione dei documenti di cui sopra (tutte cose che ho dovuto fare dai posti meno ospitali del pianeta). So, grazie alla gentilezza di un funzionario dell'Ambasciata , che la traduzione è stata ritirata 2 mesi fa e che, da quel momento, l'incartamento poteva essere presentato agli uffici competenti. So, che la cremazione del Re avviene, per tradizione, un anno esatto dopo la sua morte. Perciò che questi fossero giorni di chiusura degli uffici pubblici lo si sapeva da un anno...

E aggiungeteci pure che, con collegamenti internet  risibili, che stiamo duramente lavorando sulla spedizione della moto in Australia.
Insomma: abbiamo la mente altrove, ma insistiamo per una visitina alla città (evitando le pagode). Andiamo al vecchio porto (da cui saranno imbarcate intere generazioni di Lord Jim) e in centro. C'è una strana atmosfera: tutta la città sembra creata nei primi 50 anni del secolo scorso per poi essersi congelata in un istante.  L'ufficiale della polizia turistica ci fa vedere il suo ufficio: in fondo è davvero una brava persona. In mezzo alla piazza principale c'è la immancabile pagoda (questa credo ci aver capito che è la seconda in ordine di altezza (dovrebbe essere di un piede più bassa di quella di Naypyidaw).
Perdiamo allegramente la mattinata in sciocchezze ma poi dobbiamo recuperare la moto e arrivare a Kyaiktiyo entro le 16, quando parte l'ultimo camion per la Golden Rock Pagoda.

Facciamo una corsa e arriviamo al punto in cui partono i camion che portano alla Golden Rock Pagoda appena in tempo. 
La Golden Rock Pagoda è una delle più classiche immagini di Myanmar e si trova sulla cresta di una lunga catena di ripide colline. I camion partono molto più in basso e, per raggiungere la stazione di arrivo, viaggiano per un'ora, salendo per una strada che si annoda su se stessa per un milione di volte e supera pendenze che non credevo che i camion potessero superare. Sul cassone è stata fissata una tenda di copertura e una serie di panche trasversali. Per accomodarsi al proprio posto, si deve salire su una piattaforma e poi calarsi nel cassone. Tutto normale, salvo il fatto che la distanza fra le file dei sedili è ben inferiore alla lunghezza dei miei femori. Sto scomodissimo già da fermo. Quando il camion si spara su per la salita andando come un pazzo e sballottandoci a destra e a sinistra, rimpiango di non avere addosso i pantaloni della tuta da moto, che hanno le protezioni sulle ginocchia. L'unica possibilità è appendermi alla struttura che regge la tenda: le gambe si raddrizzano un po' e le ginocchia ringraziano. Purtroppo la struttura della tenda è troppo bassa per stare in piedi  perciò viaggio in posizione “flessa”, fino all'arrivo. Il traffico è ben organizzato: i camion partono a gruppi e, quando viaggiano in salita, non c'è ne sono in discesa. 

Saliamo e saliamo, in mezzo alla foresta. 
La cresta sopra di noi è punteggiata di pagode. Ce ne sono centinaia e sembrano disposte lungo in percorso che porta chissà dove. 
Quando le gambe che non mi reggono più,  arriviamo e inizia alla visita ad uno dei più noti monumenti del Siam.
In cima, oltre al monumento principale, c'è di tutto: un paio di villaggi, bancarelle, facchini che portano tonnellate di bagagli agli alberghi sparsi lungo la cresta, negozietti, turisti, ristoranti, pensioncine, santoni, monaci e fachiri. Non è che ci aspettassimo di scoprire chissacché, ma questo sembra un Luna Park.  
L'insieme però è piacevole. C'è un sacco di gente che si gode il fresco, passeggia, parla con qualche monaco, fa uno spuntino, dorme. Il panorama attorno è bellissimo. Continuiamo a piedi per circa un km, arriviamo ad una grande piazza e vediamo la Golden Rock pagoda. E' appena sotto all'estremità sinistra della piazza. Una grosso sasso quasi sferico, in equilibrio su uno sperone di roccia. Le due pietre si toccano solo per pochi centimetri. Sopra la roccia sferica, è stata posata la tipica guglia di una pagoda. 

Tutto l'insieme è più piccolo di quanto me lo aspettassi. La roccia in equilibrio e la relativa guglia, insieme, non superano i dieci metri di altezza. Volendo fare i precisini, si possono notare dei ferri che fanno in modo che la pietra con la guglia stia in equilibrio sullo sperone in maniera meno miracolosa di quanto dovrebbe. Il tutto, però, è di grande effetto, anche perché si staglia contro la foresta del versante opposto della valle, su un dirupo molto profondo. Alla Goden Rock Pagoda hanno accesso solo gli uomini.  Tutt'attorno ci sono centinaia di persone in meditazione, riposo o conversazione. Dalla pagoda si snoda un sentiero che corre lungo la cresta e congiunge decine di altre piccole pagode dorate, immerse nel verde. Bello. Varrebbe la pena di passarci la notte, ma dobbiamo prendere l'ultimo camion che scende. La discesa (al buio) è molto peggio della salita, anche mi sono aggiudicato un posto che ha la distanza giusta per accogliere i miei femori.  
Prendiamo il nostro furgoncino e invitiamo a cena la nostra scorta, lasciando a loro la scelta del luogo più adatto.
Ci portano in un locale di quelli che “alla mamma non lo racconti”.  In sala solo uomini, in gran parte ubriachi. Sul palco si alternano ragazzotte che canticchiano e ballicchiano sulla musica di uno piano elettrico suonato da un non vedente. Fra un numero e l'altro, sul palco si alternano gli ubriachi, stonando spietatamente fra l'entusiasmo dei presenti.

Kyaiktiyo – Myawaddy 300 km 
Ultima tappa verso la frontiera.
Anna e io siamo piuttosto nervosi: abbiamo il sospetto di avere una luuuuuuunga attesa da sopportare, ma la nostra guida Siamese si dà da fare per rassicurarci. Naturalmente il suo vero obiettivo è quello di farci passare dall'altra parte della sbarra di confine. Una volta di là...
Non ci resta salutare affettuosamente i nostri simpatici accompagnatori e chiamare il tizio che deve prenderci in consegna in Thailandia.
È già là che ci aspetta: possiamo vederlo.

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