rifugio, protezione ed empowerment per le donne marginalizzate
© in-concessione
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Eccoci al progetto numero 6.
Prima di raccontarvelo è il caso di localizzarlo e spiegare come ci siamo arrivati.
Siamo arrivati in Africa, 5° e ultimo continente del nostro giro del mondo.
Ci siamo arrivati via aerea dall’Argentina. Spedire la moto non è privo di difficoltà.
Per uno strano regolamento che, francamente, ha poco senso, con la moto possono viaggiare solo articoli relativi alla moto e al conducente, solo nel suo ruolo di “motociclista”.
La cosa sembra irrilevante ma non lo è: non potrete lasciare con la moto tenda, materassini, sacchi a pelo, fornelletti, attrezzature per cucinare, computer macchine fotografiche, eccetera eccetera. In più, con la moto non possono viaggiare un’infinità di prodotti indispensabili.
Niente olio per i rabbocchi, lubrificante e pulitore per la catena, prodotti per riparare le forature, considerati pericolosi.
Come “dangerous goods”, non potrete spedirli con la moto, ma neppure portarli con voi (né nel bagaglio a mano, né mandandoli in stiva). Non resta che buttare via tutto quello che avete o, come abbiamo fatto noi, farvelo sequestrare all’imbarco. Il risultato è lo stesso, ma potrete dire di averci provato. Tutta quest’attenzione a intrugli pericolosi contrasta un bel po’ con altre regole: il serbatoio non deve essere svuotato e la batteria non deve essere necessariamente disconnessa (l’ho disconnessa un po’ perché non me la sentivo di essere incolpato di un eventuale incidente aereo e perché è una cosa facile da fare…).
Nonostante queste stranezze e i conseguenti problemi, la spedizione della moto è stata piuttosto veloce. Abbiamo avuto qualche perplessità durante l’imballo. Insieme alla nostra, ne sono state imballate altre due appartenenti a dei ragazzi americani. Eravamo tutti lì e ci scambiavamo sguardi piuttosto preoccupati…
Comunque, la moto è partita per Cape Town (via Londra) due giorni dopo l’imballo e noi l’abbiamo raggiunta facendo un lungo giro: da Buenos Ayres a Sao Paulo, da Sao Paulo a Johannesburg e da lì a Cape Town.
Insomma, siamo sbarcati già piuttosto stanchi, cifra che sta diventando una costante, in un viaggio così lungo e così impegnativo. Ma eccoci qua.
Trasciniamo le nostre cose fuori dall’aeroporto e prendiamo l’autobus che porta in città, circa 20 km di autostrada.
Per qualche fatto strano, il lato sinistro dell’autostrada è una “normale periferia”. Ci sono fabbriche, villette unifamiliari con il giardino perfettamente irrigato, un campo da golf, un paio di laghetti con i loro imprescindibili pedalò.
Il lato destro sembra un altro continente. Nemmeno una traccia di verde. Piccolissime e bruttissime case schiera (mi sono sempre domandato perché le costruiscono a meno di 80 centimetri una dall’altra: non mi sembra che il Sud Africa abbia problemi di spazio…) e decine di migliaia di baracche di lamiera ondulata. Per il resto, solo polvere, immondizia e, quando ci sono, lunghe file di gabinetti. Sono quelli di plastica, simili alle cabine del telefono, che si vedono ai concerti rock e nei cantieri edili.
L’autobus ci lascia vicino alla stazione ferroviaria, dove prendiamo un taxi. Alla costante ricerca di una sistemazione (molto) economica. Abbiamo dovuto scartare alberghi, pensioni e ostelli in favore di una casa privata.
Come certo sapete, la città è sovrastata dalla Table Mountain: una rupe di circa 1000 metri di altezza che ne costituisce il limite meridionale. Noi abitiamo lì sotto. Una stanzetta senza fascino e senza tv, che si affaccia sul cortile posteriore di una casa unifamilare vecchiotta e non molto ben tenuta. Però siamo Oranjezicht, quartiere assolutamente “bianco”. Viali deserti, circondati da belle case e splendidi giardini. Rare auto di produzione unicamente europea. Le uniche persone di colore sono gli operai impegnati in lavori di manutenzione, il personale di servizio e, la mattina molto presto, gli homeless e i “cartoneros” che ispezionano l’immondizia alla ricerca di qualcosa di recuperabile. Poco più in là, a poche centinaia di metri, si alza la parete rocciosa della Table Mountain. La città si stende sotto di noi, oltre il lago chiamato Dam, la (scarsa) riserva d’acqua della città.
In una nazione con la ricchezza così mal distribuita, è difficile capire se l’economia vada bene o no. Per qualcuno va SEMPRE bene, per altri va SEMPRE male. A quanto pare, la situazione sud africana di oggi non è particolarmente brillante. Questo ha provocato grandi migrazioni interne (a cui si sommano le tradizionali migrazioni da tutti gli altri paesi dell’Africa).
Queste migrazioni avevano come storico obiettivo l’area orientale della nazione: Gauteng, Eastern Cape…
Miniere, cantieri navali, agricoltura assorbivano molta mano d’opera. Ora è Cape Town la nuova frontiera. Impossibile sapere quante persone siano arrivate perché moltissime non sono registrate. Nei dati ufficiali, la città è passata da 2,7 milioni di abitanti del 2001 a 3,7 del 2007 e a probabili 4,5 attuali. I bianchi sono meno del 20% (probabilmente MOLTO meno) a fronte di un 80% formato da neri e meticci e un 2% da indiani e asiatici. Molto interessante leggere la situazione della disoccupazione. I bianchi disoccupati sono circa il 3%, i meticci attorno al 20%. Per i neri, la percentuale supera il 40%.
Ecco la spiegazione della differenza fra il lato destro e quello sinistro dell’autostrada che porta all’aeroporto. Sul lato sinistro i disoccupati sono il 3%, sul lato destro (quello dove abitano neri e coloured) i disoccupati sono il 40%. E quello che hanno un lavoro guadagnano il 40% di quanto prendono gli occupati dell’altro lato. Non è che il Sud Africa sia del tutto privo di una borghesia di colore ma rappresenta una percentuale risibile.
Comunque ci tocca di tornare in questa zona (quella a destra), Philippi, dopo aver preso contatto con i ragazzi del CESVI.
Se a Oranjezicht, vista la scarsità di abitanti di colore, sembra di stare in una città europea, a Philippi ci si accorge di essere in Africa. Nella peggiore Africa. Un’Africa sradicata, povera e senza speranze.
Philippi è immensa. Per chilometri e chilometri non c’è nulla che sia più alto di due metri. Più in alto ci sono solo i pali della luce, da cui partono festoni di fili che raggiungono le baracche più vicine.
L’insediamento è organizzato (disorganizzato?) su tre livelli.
1) Insediamenti “formali”. Per la maggior parte si tratta delle minuscole casette in muratura (a cui facevo riferimento più sopra). Sono piccole, brutte e costruite una TROPPO vicino all’altra.
Però hanno i servizi essenziali: acqua, luce, gabinetto.
2) Insediamenti “formalizzati”. Insediamenti di baracche di lamiera odulata, piazzate a pochi centimetri una dall’altra. Sono insediamenti stabili, legalizzati dalla municipalità. Il vantaggio è quello di avere dei pali della luce a cui collegarsi, qualche fontanella per l’acqua e le lunghe e squallide file di gabinetti davanti ai quali fare la fila…
3) Insediamenti “informali”. Sono quelli dove si sistemano i nuovi arrivati. Nascono spontaneamente, in una notte, sui terreni ancora vuoti, ai margini della township. Ovviamente i terreni sono vuoti ma non liberi. I proprietari chiedono lo sgombero. La polizia scaccia tutti gli occupanti, che ritornano appena possibile. La battaglia va avanti per tutto il tempo che serve per convincere il proprietario e la municipalità a trovare un accordo che trasformi l’aggettivo che definisce l’insediamento da “informale” a “formalizzato”.
Si vivrà comunque male, ma ci sono alcuni vantaggi: nessuno sgombero, poca acqua, pochi gabinetti e un po’ di corrente elettrica.
Non ostante la più totale povertà, la township brilla per la sua vivacità. Decine, anzi, centinaia di parrucchieri, macellai, autolavaggi e dei baracchini (chiamati shebeen) dove si vendono tabacchi, ricariche telefoniche e alcool. Davanti a ogni macellaio c’è un braciere che arde. La carne passa direttamente dal banco al fuoco (ottima cosa: nessuno ha il frigorifero). Però è buona. I parrucchieri inalberano straordinarie immagini (nel più puro stile naif) che suggeriscono complicate operazioni tricologiche alle signore e creative rasature ai signori. Davanti agli shebeen si fuma, si telefona e si beve, molto.
Gli autolavaggi invece sono messi malissimo: Cape Town è in grave crisi idrica e sono stati tutti chiusi.
Perciò le auto sono sporche, ma non ferme. Il traffico è congestionato, anche per la totale e assoluta mancanza di semafori (e di polizia).
Se l’atmosfera fosse più rilassata, sarebbe molto più divertente di quella che si gode in centro. Purtroppo, e non potrebbe essere diversamente, basta nulla per passare dalle risate alle revolverate.
Un incidente stradale, una discussione in famiglia, una fotografia fatta senza la necessaria circospezione, possono scatenare la violenza. Perciò è MOLTO MEGLIO girare accompagnati da persone note e rispettate, altrimenti si possono correre rischi seri.
Ma questa è una soluzione che vale solo per noi, che ogni sera andiamo a dormire a Oranjezicht.
Per tutti gli altri, la vita qui è pessima. Scomoda, sporca, povera, pericolosa e con poche speranze di miglioramento.
Ma non è uguale per tutti.
Soprattutto negli stati più subalterni di ogni società, la vita è sopportabile solo se si riesce a tenere qualcuno a un gradino inferiore.
John Lennon cantava “woman is the nigger of the world”.
Ecco trovata la vittima sacrificale da piazzare sul gradino più basso della società: le donne. A qualsiasi livello si trovi il maschio, la donna sta sotto. Faccio un esempio: le donne sono tradizionalmente incolpate del contagio HIV. Indipendentemente dalla condotta sessuale del marito, quando quest’ultimo si ritrova con IL problema, decide che la colpa è della moglie e si vendica su di lei…
Il progetto del CESVI a Philippi riguarda, appunto, le donne. Le donne che, in quanto ultimo gradino della società, vengono incolpate di ogni problema e maltrattate senza pietà. Del resto questa è, purtroppo, una prassi piuttosto comune. Gli effetti sono poi ancora più gravi perché inseriti in una situazione già problematica.
Il progetto, sotto forma di shelter, nato nel 2003, è ormai diventato un punto di riferimento istituzionale.
È l’unica realtà in grado di dare rifugio, protezione e “empowerment” alle donne maltrattate e marginalizzate. Trascuro le storie di violenza e vessazione a cui molte di loro sono state sottoposte. L’importante è avere la possibilità di uscirne. Per questo serve un rifugio. Un luogo sicuro in cui cercare di ricostruirsi una vita.
Tanto per cominciare lo shelter è una realtà protetta. Impedisce a mariti e compagni violenti di proseguire con le vessazioni sia sulle donne che sui loro figli. Ma la protezione non basta.
Serve anche proporre iniziative e attività e operare per lo sviluppo di queste donne.
C’è uno staff che organizza sessioni di counselling individuali ogni settimana, per facilitare il processo di ripresa e reintegrazione. Il programma di cura è concordato, prevede obiettivi da raggiungere e per i quali la residente deve impegnarsi.
Ogni settimana sono organizzati incontri per discutere dei compiti alle residenti, come i turni per le attività della casa, e il feedback sul loro lavoro. Questi incontri sono importanti anche per condividere esperienze e risorse comuni per il supporto alla cura dei bambini e le dinamiche di gruppo. Ogni due settimane si tengono gruppi di supporto sul tema “Life skills”. Si focalizzano sui bisogni psico-sociali delle residenti, sulla loro capacità di prendere decisioni, sul ruolo che sentono di rivestire, inquadrando le attività in una “Narrative Therapy”.
L’obiettivo mira all’indipendenza delle partecipanti e il passaggio di conoscenze chiave, quali la capacità di risolvere problemi, prendere decisioni, la genitorialità, l’educazione dei figli, le relazioni di coppia e la violenza di genere.
Ovviamente, la possibilità di conquistare l’indipendenza passa dalla capacità di avere un lavoro. Le donne disoccupate partecipano a training professionali. In questa attività sono previsti anche temi come la preparazione a un colloquio di lavoro, la compilazione del CV, il rafforzamento della fiducia in sé stesse, la ricerca del lavoro, eccetera.
Come potete immaginare, molte delle delle donne residenti hanno dei figli. Questo significa che nella casa sono ospitati anche numerosi bambini che devono avere il supporto sanitario e educativo necessario, sia nella prima infanzia che nell’età scolare. L’istruzione scolastica richiede trasferte, registrazione negli istituti, pagamento della retta scolastica e spese logistiche, come quelle sulla sicurezza. Fuori dall’orario scolastico, la cura dei bambini viene effettuata all’interno del centro. I bambini più piccoli di 2 anni vengono curati direttamente dalle madri, assistite da un operatore sociale con terapie, gruppi di gioco, e momenti di confronto anche per i bambini.
La comunità però non è chiusa. All’interno della shelter sono attive numerose organizzazioni, ognuna delle quali si occupa di una specifica attività.
Queste attività sono aperte alla comunità e, per questo, accolgono un numero rilevante di persone, in gran parte bambini e ragazzi, trasformando il progetto in un HUB.
Ogni organizzazione ha i suoi spazi e i suoi compiti. Ognuna ha le sue fonti di finanziamento e ciascuna si coordina con le altre, ampliando al massimo il ventaglio dei servizi.
Anche l’area del “recupero rifiuti” è una fonte di finanziamento e potrebbe essere sostenuta da una azienda specializzata che intende utilizzarla anche come “vetrina” per le sue tecnologie.
Il lungo periodo di attività (il centro è attivo dal 2003) ha fatto in modo che anche la municipalità consideri il Centro Khanyisa (questo è il suo nome) come un partner fondamentale. Un segnale importante è il nuovo Centro Servizi che ha trovato posto proprio di fronte a Khanyisa.
Questo ha trasformato un’iniziativa “privata” in punto di riferimento essenziale nella comunità.
C’è da dire che a pochi metri (giusto dall’altro lato della strada) sta nascendo un insediamento “informale”. E’ stato già più volte sgomberato, ma rinasce ogni settimana…
Questo mi fa immaginare che la “domanda” non possa fare altro che crescere e, francamente, non so se e quando le istituzioni saranno in grado di subentrare in questi servizi.
E vero che ogni progetto di cooperazione internazionale dovrebbe avere un limite di tempo. Ma quando “questo” finirà di essere necessario?