Il 23 agosto del 1994 usciva il primo (e unico) album del cantautore americano, morto nel 1997
di Massimo Longoni© dal-web
Si può entrare nella storia del rock e nel mito con un solo disco? Sì. Lo ha fatto Jeff Buckley, che il 23 agosto del 1994, esattamente 25 anni fa, pubblicava "Grace". Una gemma assoluta destinata a rimanere un unicum anche per la morte di Buckley, avvenuta per annegamento tre anni più tardi, mentre lavorava al suo secondo album.
Per Bono Jeff Buckley è stato “una goccia pura in un oceano di rumore”, come lo ha definito poco dopo la sua morte. Di sicuro quando "Grace" arriva nell’agosto del 1994, nel pieno della bufera grunge, è un diamante sfaccettato che il grande pubblico all'inizio riesce ad apprezzare solo in parte. Non la critica che lo osanna o i colleghi, che da Robert Plant a David Bowie spendono parole importanti per elogiarlo. Le vendite arriveranno poi con gli anni. Ma non sono i numeri a consegnare un album del genere alla storia ma il suo spessore artistico.
"Grace" è il frutto di un lavoro di scrittura di quasi tre anni, poi riassunto in studio grazie al contributo del produttore Andy Wallace, già dietro "Nevermind" dei Nirvana. Il risultato è un impasto di psichedelia, rock, folk, grunge e jazz, complesso nella sua struttura e negli arrangiamenti ma immediato nell'impatto emotivo, dove l’elemento unificante e che porta tutto in una dimensione eterea è la voce di Buckley, dalle mille sfumature emotive. Una voce capace di andare all'essenza stessa dei brani facendoli risplendere al massimo delle loro possibilità.
Nell'apertura di "Mojo Pin", nella title track (entrambe scritte insieme a Gary Lucas) e in "Last Goodbye" colpiscono la dinamica, i lampi improvvisi che squarciano la calma, la passione, le timbriche oscure e gli scenari uggiosi a cui gli accordi inusuali per il tempo (figli di largo uso di corde a vuoto e accordature aperte) danno una tensione costante. Senza contare le liriche, che appaiono in alcuni casi profetiche di ciò che sarebbe accaduto ("il mio tempo è venuto/non ho paura di morire"), sebbene ispirate in realtà a una storia d'amore conclusa. "Eternal Life" mostra il lato più ruvido di Buckley, più prossimo al grunge, mentre il dolente crescendo di "Lover, You Should've Come Over" quello più romanticamente soul.
Ma in "Grace" svolgono una funzione fondamentale anche le cover presenti. Da "Lilac Wine", ispirata alla versione di Nina Simone, passando per "Corpus Christi Carol" per arrivare ad "Halleluja" di Leonard Cohen. Quest’ultima è uno di quei rari casi in cui il rifacimento di un brano riesce a svelarne potenzialità che nemmeno il suo autore (e che autore) aveva messo in evidenza. La versione di Buckley, che in realtà si rifà a una prima cover realizzata da John Cale nel 1991, diventa un classico, il cui unico difetto, in un destino analogo a quello di "Imagine" di John Lennon, è quello di ispirare una sterminata serie di rifacimenti, mai all'altezza del modello di partenza.
La tragica fine di Jeff, annegato il 29 maggio del 1997 nel Wolf River a 31 anni, fa di "Grace" l'unica testimonianza compiuta del suo genio. Al contempo la sua morte ha permesso che l'album venisse riscoperto e allargasse la sua popolarità in tutto il mondo. Negli anni a seguire sono arrivati "Sketches For My Sweetheart The Drunk", costituito dai demo per il secondo album a cui stava lavorando, che è però solo una bozza di quello che Buckley aveva in mente, e alcune raccolte con inediti e esibizioni live. Niente però con la prefezoine formale e la potenza espressiva di "Grace", un mosaico senza tempo, figlio di uno stato di grazia assoluto.