INCUBO ESTREMISMO

"Mothers" e foreign fighters, "vi racconto il mio viaggio nella Jihad"

Nel nuovo film di Liana Marabini il dramma di due madri di combattenti Isis. Francesco Riva, giovanissimo attore, interpreta uno dei due "soldati dell'Islam" e la sua discesa nell'inferno siriano

di Isabella Dalla Gasperina
12 Apr 2017 - 10:02
 © ufficio-stampa

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La faccia pulita e i lineamenti delicati, i riccioli morbidi e il sorriso aperto, con un filo di smaliziata furbizia appena accennato. A incontrarlo lontano dal set, Francesco Riva dà l'impressione di avere ben poco in comune con il suo personaggio di esordio sul grande schermo. Il primo ciak lo ha girato mettendosi nei panni di Sean, cittadino britannico per nascita e militante della Jihad per scelta. Ha dato il volto a uno delle figure più inquietanti del nostro tempo: i foreign fighters. Al cinema dal 13 aprile, il film "Mothers", diretto da Liana Marabini e interpretato, tra gli altri, da Christopher Lambert e Remo Gironi, racconta di due studenti universitari di Londra che decidono di lasciare il Regno Unito per andarsene in Siria, come in una sorta di romanzo di formazione alla rovescia, a "cercare se stessi".

E pensare che il provino per Francesco era quasi andato male.
“Mi sono presentato per interpretare Taarik, lo studente figlio della donna islamica, e sono stato preso per fare Sean, figlio di una nota scrittrice, Angela, rimasta vedova. Liana si è accorta subito che ero tagliato per l’altro personaggio. E sono convinto che abbia azzeccato in pieno. Francesco Meola invece era perfetto per Taarik: la forza giusta negli occhi, nel carattere, nella figura”.

Tu invece sei stato visto "giusto" per fare Sean: il foreign fighter che, dopo una serie di scelte sbagliate, cerca di tornare indietro. Quello che innesca una catena di eventi fino a partire per la Siria. Come sei riuscito a entrare in questo personaggio?
“Non è stato facile perché io non farei mai una scelta del genere. Ho cercato di capire cosa potesse esserci dietro, e credo che all’origine ci sia un grande vuoto di valori. Sean si lascia affascinare da Omar, il reclutatore con cui viene a contatto al campus universitario in cui studia, una figura forte e carismatica, e fa la sua scelta”.

Una scelta che si chiama Jihad, odio, morte. Perché?
“Ho studiato l’Islam, ho analizzato i cinque pilastri di questa religione, che non incitano né alla guerra né al martirio. Ma Sean si lascia prendere dal fanatismo perché non capisce quanto male ci sia sotto. La debolezza, la mancanza nella sua vita di un padre e di un punto di riferimento forte lo porta a ribellarsi alla sua cultura per cercare un senso altrove, ma questo altrove si rivela una profonda delusione. Una ‘fase’ in cui mi sono immerso profondamente rivivendo le esperienze che nel passato mi hanno deluso”.

Nel caso di Sean però la delusione è un’esperienza che apre gli occhi sulla verità. C'è qualcosa da salvare in questo personaggio quindi, qualche aspetto che lascia aperta la porta alla speranza?
"Di lui mi è piaciuta l'ingenuità, la freschezza. Una caratteristica ambivalente perché è quella che gli fa desiderare la 'sicurezza' e la determinazione degli estremisti, ma che al tempo stesso gli fa scattare anche la coscienza critica della 'redenzione'".

Dopo aver girato questo film è cambiato qualcosa nella tua percezione della Jihad?
"In realtà no. Non mi sono mai fidato dell'estremismo e girare Mothers ha solo accentuato questa mia convinzione. Diffido di tutto ciò che è estremo. Sono cambiato nella percezione delle persone coinvolte in questo fenomeno perché ho capito una cosa: tra chi segue quei precetti c'è anche chi lo fa per ingenuità. E per alcune 'colpe' dell'Occidente".

In che senso?
"
Taarik e Sean vanno in Siria per ritrovare i valori che l'Occidente ha perso e perché sono convinti che nell'Occidente non ci sia possibilità di salvezza. Cercano quella profondità spirituale che la nostra cultura non ha più e che ha riempito con le illusioni dell'immagine, del benessere, del piacere. Una ricerca che però cade nell'orrendo peccato dell'estremismo".

Respiravate la stessa tensione anche sul set?
"Non direi. Non potevo desiderare niente di meglio per cominciare la mia carriera cinematografica di quello che ho trovato: un cast internazionale, un set allestito nel cuore della campagna bolognese, a Sasso Marconi, un'atmosfera di grande rispetto nella squadra di lavoro. Liana ci ha fatto sentire parte di un progetto di alto respiro culturale, in cui tutto aveva un senso ben preciso: dalle luci delle inquadrature che rimandavano a simbolismi legati alla grazia o alla religione, all'organizzazione della giornata, scandita da lavoro e momenti conviviali, e dal riposo".

Senza estremismi e intolleranze.
"Assolutamente no. Recitando nel ruolo del foreign fighter, ho potuto apprezzare a maggior ragione la religione che mi ha catturato l'anima ormai da anni, il buddismo. Una fede che insegna a cercare la luce in ogni essere vivente e ad avere l'obiettivo della pace". Lontana anni luce dal credo targato Isis.

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