Il capolavoro del premio Nobel riletto, nel teatro milanese, dalla coppia Gabrielli-Loris
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Uno spettacolo per tutti, ma in particolar modo rivolto ai giovani, cioè a coloro che sono in fase di costruzione della propria personalità. “Uno, nessuno e centomila” è di nuovo in scena (dall’1 al 22 dicembre) al teatro Out Off di Milano, dopo il successo della scorsa stagione. Con l’adattamento di Renato Gabrielli e la regia di Lorenzo Loris (frutto della coproduzione tra Out Off e MTM), lo spettacolo porta in scena l’ultimo romanzo di Luigi Pirandello, uscito nel 1926 (“sintesi completa - disse ai tempi l’autore siciliano, premio Nobel nel 1934 - di tutto ciò che ho fatto, e la sorgente di ciò che farò”).
Mantenendone intatta la lingua, rispettando alla lettera i brani del romanzo, Gabrielli ha creato un tragicomico meccanismo teatrale, che scompone e ricompone l’identità del personaggio più complesso dell’intera opera pirandelliana. La figura del protagonista, Vitangelo Moscarda (l’uomo che una mattina - guardandosi allo specchio, incalzato dalla perfida moglie Dida - si accorge di avere il naso storto: una scoperta che sconvolgerà la sua intera esistenza), è stata divisa in tre personalità distinte, che interagiscono costantemente fra loro: Moscarda Uno (Gaetano Callegaro) è - diciamo - il titolare del corpo del protagonista; poi ci sono Moscarda Due (Mario Sala) e Moscarda Tre (Stella Piccioni: bravissima!) che hanno anche la funzione di far rivivere i personaggi della storia, raccontata con umorismo feroce e in senso circolare: si apre e si chiude nel parco della clinica in cui il protagonista, ormai impazzito, viene rinchiuso, e da cui (come in un flashback) rivive le tappe della sua caduta, che è però al tempo stesso una specie di rinascita.
Moscarda Uno - continuamente tentato, strattonato dai centomila sé stesso, e da tutti coloro che gli gravitano intorno - scopre di essere, in fondo, soltanto ciò che gli altri vedono, ma quello che gli altri vedono non corrisponde alla sua percezione di sé. Figlio di un banchiere, in bilico (agli occhi della gente) tra l’usuraio e il benefattore, il protagonista si incammina su una strada senza ritorno, procedendo per sottrazione, cioè andando alla scoperta di ciò che non è e che non vuole più essere. Un espediente che lo conduce allo smembramento della personalità, alla propria liberazione, all’affrancamento dalle etichette che la società gli impone e “da tutte le rabbie del mondo”. Quello di Moscarda Uno (“Gengè” per sua moglie Dida, presto disconosciuta) è un precipitare senza paracadute, così ossessivo e bizzarro da condurlo alla (salvifica?) follia.
In alcuni momenti dello spettacolo, soprattutto all’inizio e alla fine, Loris fa indossare ai tre protagonisti una maschera, intendendola come i latini (Persona/Personam) o come Jung la intendevano: cioè la chiave necessaria per le relazioni sociali. Che apre tutte le porte. Eccetto (ci ricorda Pirandello) la nostra.