Dopo i tanti sold out della scorsa stagione, riecco il vaudeville cult di Eugene Labiche, riletto da Andrée Ruth Shammah. Fino a domenica 4 dicembre a Milano
di Roberto Ciarapica© Web
C'è quasi solo da ridere. Con una sottile inquietudine sullo sfondo. Il che significa aver centrato i due obiettivi che la regista Andrée Ruth Shammah si era probabilmente posta, insieme a Giorgio Meluzzi, andando a rispolverare (e rimaneggiare) uno dei più grandi successi del genere vaudeville: "Il delitto di via dell'Orsina" (L'Affaire de la rue de Lourcine), di Eugène Labiche. Lo spettacolo torna al Teatro Parenti di Milano (dal 17 novembre al 4 dicembre) dopo aver convinto critica e pubblico nella scorsa stagione.
Spostato dalla Francia all'Italia, e dall’Ottocento all’epoca prefascista ("per dare luce più nera alla commedia", secondo Andrée Ruth Shammah), con l'aggiunta di nuovi personaggi, Il delitto è la storia di due ignavi borghesi (Zancopè e Mistenghi, Massimo Dapporto e Antonello Fassari), ex compagni di scuola, che si risvegliano nello stesso letto, dopo una notte di sbornie, senza capirne il motivo e senza ricordarsi (quasi) nulla della serata precedente. "Potremmo anche aver commesso qualche atrocità…", è la frase-scintilla che accende la miccia di una commedia frenetica, con canti, balli e clownerie mai tenute a freno, al contrario cavalcate.
Il giallo della storia è secondario, sbiadisce quasi subito: quando il cameriere sussurra agli spettatori, prima di passarlo ai protagonisti, che "il giornale è vecchio di anni...", già spinge il racconto sul binario della farsa. Ha poca importanza che la notizia dell'assassinio della giovane carbonaia, in via dell'Orsina, possa essere ricondotta ai due protagonisti, sui quali aleggiano prove apparentemente schiaccianti. Ciò che conta di più è (cercare di) mostrare le loro miserie, la loro grottesca autodifesa.
In un unico atto, in poco più di un'ora di spettacolo, tra malintesi e sarcasmo noir ("Mai più uccidere carbonaie, sporcano troppo"), emerge allora - forse un po' faticosamente, dall'orgia di risate e stornelli - la satira sociale, la banalità quasi comica del male, il conflitto fra essere e apparire. "In un mondo come questo, in cui conta come gli altri ti vedono e non come sei, la commedia di Labiche funziona ancora benissimo", è la tesi della regista, alla quale Franco Parenti mostrò la bellezza del vaudeville, considerato un teatro minore, "ma in realtà puro, fatto di una comicità intelligente, per parlare dell’oggi senza retorica".
Nei panni di Zancopè, uomo dall'avarizia patologica, Massimo Dapporto (che torna al Parenti dopo il meritatissimo successo di Un borghese piccolo piccolo del 2019) si cala perfettamente nel vaudeville, muovendosi sul palcoscenico come un capocomico da avanspettacolo (sulle tracce del compianto padre Carlo - si pensi per esempio al personaggio di Gardenio, nel film del ’53 con Sophia Loren: Ci troviamo in galleria). Al suo fianco un Antonello Fassari in perfetto stile clown, con tanto di naso rosso disegnato, per non perdere mai di vista il colore (e il mood) di questa strombazzante, fischiettante, e a tratti (diciamo) inquietante, commedia.