Il nuovo album di Edda, ex voce della mitica rock-band. La chiacchierata di TgCom24
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Un paio di tette floride, seni grossi e accoglienti ai quali due mani non possono resistere e ci si devono aggrappare. Un po’ per piacere, un po’ per sopravvivere. Titolo dell’opera: “Odio i vivi”. Tutto chiaro, no? Certo, se l’album è di Stefano Rampoldi, in arte Edda, l’ex voce dei Ritmo Tribale. Ha una storia Edda che sembra presa in prestito a un romanzo di formazione o a un film di Scorsese. Negli anni Novanta, lui e la sua band spopolano, poi però, all’improvviso, Edda molla tutto. Esce dal gruppo e va in un rehab. Vince la battaglia contro la tossicodipendenza e si mette a lavorare. Fa l’operaio, costruisce ponteggi. Ma il richiamo della musica dopo un po’ ricomincia a pulsargli dentro. Edda risponde. Due anni fa il suo primo album solista “Semper Biot”: un successo. Ora il secondo lavoro “Odio i vivi”. Per saperne di più gli abbiamo telefonato. La sera. A fine turno, ovviamente. Ecco la chiacchierata di TgCom24 con Stefano “Edda” Rampoldi.
Partiamo dal titolo “Odio i vivi”. Eppure la copertina è l’inno alla gioia della vita, la fonte primaria del piacere, del benessere, della prosperità e quindi della creazione… Una contraddizione casuale o inevitabile?
Odio i vivi, non le vive! (ride, n.d.r.)... Diciamo che se la sera dopo il lavoro torni a casa e trovi una donna così che ti aspetta forse la vita è un po’ più facile (sorride n.d.r.) Più che altro il titolo esprime il mio disagio, la difficoltà a interpretare l’esistenza. La mia è un’eterna frustrazione, una perpetua lotta, ma in copertina desideravo qualcosa che mi rendesse felice, un memento, un ricordo. Io sto nel mezzo, ecco, in questo confine illimitato in cui la vita è un po’ bella e un po’ brutta.
Rispetto a “Semper biot” che era nudo e crudo fin dagli arrangiamenti questo album ha parti orchestrate e suona decisamente più elettrico. Un ritorno alle tue origini rock o un’esigenza di diversificare?
Taketo ha scelto tutto (Taketo Gohara, produttore dell’album, n.d.r.). Non avendo una band mia mi sono affidato, diciamo così, ma il prossimo, sempre se ci sarà un altro album, lo voglio completo, coi bassi, le tastiere, la batteria, tutto insomma. Ero un po’ preoccupato all’inizio, a dire il vero, perché non mi piacciono i violini, le trombe, ma il risultato funziona perché è tutto molto mischiato, non si sente mai l’effetto orchestra, è come un insieme di parti differenti che insieme girano alla perfezione. Io mi sono limitato a cantare e suonare la chitarra, nessuno sapeva bene cosa sarebbe successo. sapevo cosa non mi piaceva e quello che ho sentito mi piace. Certo faccio fatica a riconoscere la mia voce che su disco non piace per nulla…
Ma come? E’ il tuo marchio di fabbrica, hai un timbro inconfondibile che ti scava dentro…
Noooo, invece su disco sembra una voce da Zecchino d’oro, è troppo pulita, mentre dal vivo è pazzesca, dà quasi fastidio.
E’ un album spiazzante, duro e lirico allo stesso tempo, che bandisce l’easy listening, un disco in cui continui a metterti a nudo nel profondo. Nessun imbarazzo o pudore, solo verità. Per capirci: quanto coraggio ci vuole per cantare “L’amore diventa merda dopo due settimane, i miei amici fanno figli, io ho solo fame”
Quei versi li ho scritti di getto dopo una cena a casa di Andrea Scaglia, l’ex chitarrista dei Ritmo. L’ho visto con la sua famiglia, una moglie, due figli bellissimi e mi sono sentito una merda! Ho provato la classica gelosia o invidia o chiamala come ti pare e ho pensato: “Non c’è speranza per me!”
Eppure molti titoli hanno nomi di donna, sono storie autobiografiche?
Io sono come Emilio Salgari che ha scritto di posti lontanissimi senza averli mai visitati. Ecco diciamo che loro esistono per me, ma io non esisto per loro. Ormai, alla mia età, a quasi cinquant’anni, chi vuoi che mi prenda? Mi sono sentito amato, a tratti, però mi manca quell’approvazione incondizionata che invoco da sempre. E’ come se fossi alla ricerca di qualcosa che forse non c’è.
Anche Milano, la tua città d’origine, sembra un tuo amore contrastato. Le hai dedicato un pezzo nel primo album che era un misto di rancore e dolcezza. Che rapporto hai con lei?
Stamattina la guardavo da un ponteggio, a Baggio, dove adesso abbiamo il cantiere… ma non so, io sono innamorato di Genova, è una città che mi fa stare bene. Non a caso il tour è partito da lì. La Milano mia è la Milano da bambino. C’era la nebbia, non vedevi gli alberi, ma non si può rimanere sempre legati alle cose. Io poi da quando sono finito in comunità, che era un posto perso nei campi, in città non ci abito più, ora sto ad Arona, sul lago. Diciamo, in generale, che non mi piace sentirmi italiano, come cantava Gaber, ricordi?: “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”. Vivo abbastanza male, poi va beh, sono sempre stato quello del “me ne vado, me ne vado” e poi sono rimasto qui. Ma io sono poco in pace con me stesso.
Raccontami del tuo rapporto con la fede. Com’è che sei diventato un Krishna?
La religione mi ha cambiato la testa trent’anni fa. Ed è stato un incontro casuale. Era la notte di Capodanno del 1983 e io ero insieme a mia nonna, in campagna. Dopo la mezzanotte, scanalando tra le stazioni radio, m’imbatto in “Radio Krishna International” e ne rimango come ipnotizzato. Non so dirti perché, però hai presente quando senti le fatidiche “buone vibrazioni”? Ecco. E’ andata più o meno così. Trasmettevano messaggi di speranza che mi parlavano dritto al cuore. Da allora non li ho mai abbandonati. Non sono un krishna fatto e finito. Sì, sono vegetariano e tutto, ma mi sento come maglione senza una manica, eppure non riesco a ragionare in altra maniera. Di speranze però non ne ho e il dubbio sull’esistenza di dio rimane, ma nulla è più vero di questo dubbio.
Ti ha aiutato la religione nei momenti difficili?
Non direi, non lo so, certo mi ha dato una spiegazione razionale a quello che stavo attraversando. Durante il mio periodo di dipendenza dall’eroina sapevo che se ero nella merda era per colpa mia perché uno che si droga sta pagando per quello che ha fatto. E’ il kharma. E ci credo, così come credo nella reincarnazione, ma quello è stato un periodo buio, brutto, in quel momento stavo male.
All’apice del successo coi “Ritmo” sei uscito di scena. Il resto ormai è quasi mitologia rock&roll. Vai in comunità, torni e ti metti a fare l’operaio, a costruire ponteggi. E’ vero che hai ricominciato a suonare insieme a un tuo compagno di cantiere?
Ma no! Impossibile! Quelli sono tutti stranieri! Ho provato a fargli ascoltare dei miei pezzi, ma mi hanno detto chiaramente che gli fanno schifo!
Incoraggiante! E’ un mestiere durissimo quello che ti sei scelto in ogni caso…
Già, tutti i giorni parto da casa prima delle sei del mattino e non torno mai prima delle 6 di sera. Infatti mi sono licenziato per fare questo disco. Non volevo distrazioni e poi dopo una giornata in cantiere dove trovavo le forze di mettermi a scrivere? Per sette mesi non ho lavorato e ho pensato solo all’album.
Quanto coraggio c’è voluto per prendere questa decisione?
Sì, parecchio, ma ho pensato che se non suonavo mi rimaneva ben poco. Ci vuole un po’ di emozione nella vita, o no? (ride, n.d.r.). Comunque dopo sei anni di ponteggi mi ha destabilizzato questa scelta. Pensa che tre giorni prima di entrare in sala non volevo più farlo…
Quanta forza ti dà sapere che la critica ti adori?
Mi fa piacere, certo, è incoraggiante, però ti dico la verità a volte mi piacerebbe pensare che il disco fa schifo, ma ho riempito San Siro. E poi mi sento come un panda, faccio tenerezza, ormai.
Quante speranze ci sono per una reunion dei “Ritmo Tribale”?
Se ci danno il tour-bus io faccio la turné! (ride, n.d.r.) Sì, voglio uno di quei pullman con le cuccette per andare su e giù per l’Italia, mica come ai nostri tempi che gli strumenti ce li dovevamo portare in giro con le nostre auto! (ride, n.d.r.). A parte gli scherzi, una reunion coi Ritmo si può fare a patto che non risulti squallida o che si pensi che la facciamo solo per i soldi. Ora è ancora presto per ragionarci, però. In ogni caso, io voglio il tour-bus!