Dai Velvet Underground a "Transformer", l'album capolavoro
Se è vero che il rock non morirà mai, certo non è in un momento felice, non se la sta passando bene. E la dipartita di Lou Reed non lo aiuterà a stare meglio, anzi. Il messaggio, il significato, il gesto, la cultura del rock sono in ribasso da tempo e la perdita del grande artista americano fa traslocare dal presente all'archivio, alla memoria un pezzo enorme di questo patrimonio così difficilmente aggiornabile.
Dai Velvet Underground a David Bowie, da Warhol a Wim Wenders, Reed ha costruito un cammino che ha pochi eguali pensando ad altri giganti dell'arte-canzone come Dylan o Lennon. E' stato una perfetta icona del modo rock anche solo per il modo di presentarsi, non c'è stato mai spazio per dubbi o interpretazioni sulla validità del personaggio: il volto tagliato nel legno anche da giovane, il giubbetto di pelle, la sua voce profonda, scarna, sempre rivestita di una strana, ipnotizzante carta vetrata che esprimeva rabbia o sofferenza, le asprezze di una vita fatta di droghe, di strada e di storie maledette o solo strane, lontane da quelle che potevano caratterizzare le giornate dell'uomo comune. Persino esprimendo dolcezza era capace di iniettare una sorta di inquietudine, una goccia di quel malessere di convivere con il suo genio e la sua arte che per tanti, troppi anni lo ha condotto - perfetto anche qui, a dispetto di ogni considerazione morale - sulle strade ripide delle dipendenze. Ma tutto questo, tutto quanto, lo si tenga sempre presente, è contorno rispetto al musicista, al poeta, al songwriter.
I Velvet Underground, creati con John Cale e guidati da Warhol, sono stati urlo primordiale tuttora insuperato, nella storia del rock. E i suoi lavori da solista, da "Transformer" (uno dei pochi album eletti, quelli in cui ogni pezzo è al posto giusto nel momento giusto) a "Coney Island Baby" hanno disegnato uno stile che - altra unicità - ha forse avuto un impatto più forte sui giovani artisti che sui fans stessi. Pezzi apparentemente semplici musicalmente, tre accordi, quattro, cinque, pochi fronzoli per poi magari saltare nel dissonante, nell'antimelodico: eppure il suono, e soprattutto i versi che si sovrapponevano a questo, rendevano il tutto un unicum, un vero marchio di fabbrica. Le parole, gli accordi di Lou Reed, scavalcata la barriera del semplice 'ascoltare', sono stati una calamita, e continueranno a esserlo perlomeno fino a che il rock, in questi tempi di nebulizzazione cerebrale, riuscirà ancora a diffondere il suo verbo. Dentro il quale, sicuro, troveremo ancora le rughe di Reed. Che se ne è andato proprio di domenica mattina, "Sunday Morning". A volte il destino riesce a farti un regalo anche con l'ultima canzone, se lo meritava, Lou.