Rolling Stones, il tour di "addio alla Gran Bretagna" del 1971
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Il 23 aprile del 1971 usciva una pietra miliare del rock, capolavoro totale, dalle canzoni all'oltraggiosa copertina concepita da Andy Warhol
di Andrea Saronni© Dal Web
Ci sono due risposte alla domanda “Quando sono nati i Rolling Stones?”. La prima è quella generica, biografica, vedi a pagina Wikipedia corrispondente, l’incontro alla stazione tra Mick Jagger e Keith Richards nel 1961 e via con l’epica. L’altra, invece, può essere molto più precisa ed è il 23 aprile 1971, il giorno in cui nei negozi inglesi venne distribuito "Sticky Fingers". Buon mezzo secolo allora agli Stones che abbiamo conosciuto, che abbiamo visto ancor più che sentito, agli Stones pontefici del rock che per forza e per denaro, proprio come un Pontefice finiranno solo con la morte, non con un pensionamento scelto o naturale.
Lo status quo dei Rolling Stones, la loro fiorente industria e la definitiva immagine della “best rock’n’roll band in the world” nascono con questo album perfetto, perfetto perché oltre all’ingrediente base della musica è progettato e realizzato magistralmente in tutte le sue pieghe, improvvisazioni zero. E soprattutto è accompagnato da scelte epocali, che non possono essere solo frutto di stelle e di ispirazioni favorevoli. Per esempio, ancora prima di parlare di una singola canzone, di un testo, insomma di musica, basti pensare all’oggetto materiale, al disco. Una copertina sola e due icone immortali: la sleeve con i jeans attillati, una cerniera vera e propria e un noto muscolo maschile in chiara evidenza. E sul retro, in un angolino, un logo, una proto-emoticon inconfondibile: anche la leggendaria linguaccia stoniana compie 50 anni e proprio non li dimostra, quando la incontri sulle magliette delle ragazzine. Ispirata alla bocca del capobanda e creata per essere il marchio della neonata Rolling Stones Records, fruttò ben 50 sterline al suo ideatore, John Pasche; qualche soldino in più spuntò Andy Warhol, artefice invece della celeberrima cover e componente del nutrito gruppo di artisti, intellettuali, leader artistici e del jet-set che dall’inizio dei 70's si avvicinano ai Rolling Stones, o meglio a Mick Jagger, che della catarsi del gruppo è responsabile assoluto. Partner e affari, immagine, promozione e produzione, Jagger mantiene solo per la facciata ribellione e sfrontatezza e inizia qui, tra questi solchi, la sua straordinaria carriera parallela di manager di se stesso e della sua creatura.
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Anche il disco, le canzoni sono marchiate dal perfezionista Mick, che ama confezionare bene i suoi manufatti: la prima cosa che esce da "Sticky Fingers" è infatti la pulizia del suono, fino ad allora piuttosto inusuale per i lavori degli Stones. I mixaggi precisi, gli arrangiamenti e i contributi dei side-men rendono ancora più autorevoli e impattanti le grandi song che compongono l’album. A cominciare dal marchio di fabbrica, "Brown Sugar", uno dei pezzi più identitari dello stile chitarristico di Keith Richards: peccato, però, che pure quella sia nata dalla testa del suo “glimmer twin”, che la trovò durante le riprese di un film in Australia. Rileggere il testo di questo superclassico e contestualizzarlo a oggi fa venire i brividi, questo pezzo sarebbe finito in Parlamento tra le urla dei social. In 4 minuti, Jagger mette insieme un campionario di porcate mai visto, dal “vecchio schiavista” che frusta le donne verso mezzanotte, alla padrona di casa che si chiede quando il suo servitore finirà e ovviamente al buon sapore della “Brown Sugar”, una dolcezza di pelle scura e anche una diffusa qualità di eroina.
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Ma il politicamente scorretto era di là da venire, come poi dimostrano molti altri brani dell’album in cui a livello concettuale - pensa te che duello - la droga vince di misura il proverbiale confronto con il sesso e il rock’n’roll. E anche tutto ciò è puro Jagger, calcolatore e conscio del fatto che l’immagine maledetta degli Stones è alle fondamenta del culto di milioni e milioni di aficionados: per anni dei primi "70", sono finite le utopie hippy, le illusioni di una rivoluzione. E la risposta, molti, la trovano nelle sostanze nelle storie al centro delle canzoni di Jagger e di Keith Richards, pietra appena rotolata nel baratro della tossicodipendenza pesante. La musica, tuttavia, è così buona da alleviare il peso delle liriche: Mick Taylor, il nuovo socio chitarristico di Richards, esalta la voglia di perfezione del suo front-man suonando da dio e portando la band in nuovi territori. “Can’t You Hear Me Knocking” sono tre minuti (magnifici) di Rolling e quattro di una digressione alla Santana. Per non parlare dell’assolo sulla coda di "Sway” e dei tocchi che danno a "Sister Morphine" il sapore che deve avere, che è quello del semi-delirio di un junkie steso in un letto di ospedale, in piena crisi di astinenza. Per tutto il resto, per cose bellissime come "Wild Horses" o "I Got the Blues", ci sono Mick e Keith, e Charlie Watts, motore silenzioso e potente degli Stones.
Pensato e nato per vincere, "Sticky Fingers" trionfa conquistando le chart di tutto il mondo occidentale. Proprio mentre scala le classifiche, gli Stones lasciano la madrepatria Uk per sfuggire alle mandibole del fisco e vanno in Francia. Lì, al caldo della Costa Azzurra, si concederanno un ultimo giro da vecchi Rolling, disordinati ma creativi e appassionati: nascerà "Exile On Main Street", da tutti o quasi considerato il loro capolavoro. Poi, solo vita e opere da star, da intoccabili, da capostipiti rock con migliaia di figli non sempre affezionati e grati. Poco importa, se girandosi dall’altra parte gli dei Stones hanno potuto vedere le moltitudini vestite con quella maglietta, con quella lingua rossa che in 50 anni si è incollata insieme ai suoi rappresentati nell’immaginario collettivo. Quella sì, che è stata davvero “Sticky”.
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