ALBUM E TOUR

Deep Purple, una storia "inFinite": "Dire la parola fine fa paura"

E' uscito il ventesimo album della storica band che parte ora per un nuovo tour mondiale. Sarà l'ultimo? Tgcom24 ne ha parlato con il bassista Roger Glover

di Massimo Longoni
12 Apr 2017 - 10:14

Si intitola "inFinite", con la F di "finito" in bella evidenza, il ventesimo album in studio dei Deep Purple. La storica band hard rock, alla soglia dei 50 anni di carriera, gioca su una possibile fine della storia, tanto che il tour è intitolato "The Long Goodbye". "I fan si chiedono se siamo alla fine del viaggio - dice a Tgcom24 il bassista Roger Glover -. Ce lo chiediamo anche noi! Ma non fisseremo una data di addio: sarebbe un peso insopportabile".

Quando la storia si fa così ingombrante bisogna fare i conti con il tempo che passa e con il naturale corso della vita. Jon Lord (che aveva già lasciato il gruppo) è morto nel 2012 mentre il tour dell'anno scorso è stato interrotto per un ictus di Ian Paice. Ma questo non è bastato a fermare la band: nel 2018 ricorrerano i 50 anni dalla fondazione e intanto è uscito un nuovo album che, pur nelle classiche coordinate dei Purple, stupisce per freschezza ed energia, come già aveva fatto il precedente "Now What?!". Allegato al cd c'è un dvd registrato durante le prove precedenti alla registrazione del disco, dove si può ammirare come i cinque, in compagnia di un mostro sacro della produzione come Bob Ezrin, affrontino la musica con l'entusiasmo dei ragazzini alle prime armi. "Non siamo stanchi di fare musica - spiega Glover -, d'altro canto come ci si può stancare di qualcosa che ami? Siamo stati molto fortunati all'inizio degli anni 70 perché abbiamo posto lì le fondamenta della nostra carriera. Possiamo andare in qualunque parte del mondo e trovare un pubblico che ci aspetta e questo è un lusso. E' facile andare avanti perché non dobbiamo fingere di essere qualcosa, non dobbiamo fare nulla forzatamente. E' come se fossimo su un treno in corsa, chiamato Deep Purple, e ci lasciamo trasportare felicemente".

E' possibile che oggi che non dovete dimostrare più nulla vi divertiate persino di più?
Non credo ci sia mai stata grande pressione su di noi. Nessuna etichetta ci ha mai detto cosa dovevamo fare, i patti con le case discografiche sono sempre stati chiari: noi facciamo la musica, voi vi occupate del resto. Oggi è una sfida. Dopo tutti questi anni, e faccio fatica credere ne siano passati così tanti, la sfida è presentare nuova musica che ci rappresenti perfettamente senza copiare quello che abbiamo fatto nel passato o diventare la parodia di noi stessi. E' facile cadere in quella trappola: ci è andata bene in passato con quelle cose, perché non rifarle? E' una trappola! Abbiamo avuto successo? Bene, ma ora è il momento di andare avanti.

Ascoltando "inFinite" si ritrovano i Deep Purple classici ma quello che sorprende è l'energia che evita che tutto suoni polveroso...
L'incontro fondamentale per noi è stato quello con Bob Ezrin. Abbiamo riscoperto una serie di cose che avevamo dimenticato. Dopo averci visto dal vivo è rimasto scioccato dalla nostra interazione sul palco, dalla freschezza, dalla spontaneità e dall'energia che ne scaturiva. E soprattutto dalla reazione che suscitava nel pubblico. Quando lo abbiamo incontrato il giorno dopo ci ha parlato chiaro: "Dimenticate singoli radiofonici o canzoni accattivanti. Siate voi stessi. E' abbastanza semplice da fare'. Ha creato una splendida atmosfera in studio dove lui si è preso tutte le responsabilità e noi dovevamo solo essere noi stessi e suonare. Questo album è il frutto di quel feeling.

Dopo tanti anni insieme è cambiata la chimica tra di voi, il modo di comporre musica?
Nel documentario a un certo punto Ian Gillan dice che in fondo i Purple sono una band strumentale. Ed è vero. Prima che la band si formasse ognuno di noi ha fatto gavetta in altri gruppi e ha avuto modo di formarsi come musicista. La prima volta che sono entrato nel gruppo sono stato colpito dalla libertà mentale che avevano: potevano suonare jazz o classica con la stessa facilità. Erano più un ensemble jazz che una rock band. Quando siamo arrivati io e Ian si è creata questa combinazione tra loro tre, grandi musicisti, e noi due, fondamentalmente autori di canzoni. Non voglio fare troppe analisi ma è stata un gran parte del nostro successo.

Qualcuno sostiene che il rock ormai sia diventato la nuova musica classica. Sei d'accordo?
L'hard rock ingloba qualsiasi tipo di musica, e questa è la grande differenza con l'heavy metal. Quando abbiamo iniziato a suonare, noi facevamo pop. Poi è cambiata nel corso degli anni 60. Ma avevamo una libertà incredibile, potevamo scrivere in qualsiasi stile, senza regole imposte. Il rock si è sviluppato da un melting pot di musiche che comprendeva il pop, la sperimentazione, jimi Hendrix, i Cream e la voglia di alzare i volumi... E' difficile spiegare ma quello che facevamo era terribilmente espressivo. Se lo definisci "classico" lo chiudi in un bacheca e io invece credo ci sia ancora molto da dire.

I Deep Purple hanno cambiato line up diverse volte nel corso della loro carriera. Credi questa sia stata una ricchezza per il gruppo o vi abbia danneggiato?
Quello che posso dire è che quando lasciai i Purple nel 1973, per me è stata una tragedia. Eravamo la più grande band del mondo, nessuno vendeva quanto noi. Lasciare... non sarebbe mai dovuto accadere, ma è successo. Forse se avessimo continuato saremmo andati avanti due o tre anni ai massimi livelli e poi ci saremmo sciolti definitivamente. Ma tutto questo fa parte dei possibili futuri alternativi di cui non possiamo avere prova.

Di sicuro l'evoluzione per voi è diventata una caratteristica fondante, tanto che i fan dividono la vostra storia in base alle diverse formazioni...
La gente di solito è spaventata dal cambiamento mentre è una parte fondamentale della nostra vita. Ogni cambiamento viene visto come una sfida. Noi abbiamo dovuto affrontarlo il giorno che Ritchie Blackmore se ne andò e arrivò Steve Morse che ha uno stile completamente diverso. Ma era necessario: se avessimo cercato un chitarrista clone di Ritchie sarebbe stato un errore madornale. Sarebbe stato un continuo confronto, in perdita, con ciò che avevamo fatto negli anni 70. Abbiamo deciso di cambiare completamente. Avevamo comunque un solido sound carattristico ma il cambiamento ci ha dato maggior libertà. Stessa cosa quando Don Airey è entrato al posto di Jon Lord. Rispetta il suo lavoro ma è un tastierista diverso, ha la propria personalità. Dopo il primo concerto, quando gli abbiamo fatto i complimenti, ci ha detto: "Ho provato a essere Jon Lord. Per circa venti secondi. Poi sono stato me stesso". Ed è così: non puoi essere qualcun altro.

All'inizio hai detto che essere nei Purple è come essere su un treno in corsa. Sia il titolo dell'album che quello del tour mettono qualche dubbio: quanto andrà avanti ancora questo treno?
Se lo chiedono i fan, ma ce lo chiediamo anche noi. Non credo che sia possibile fissare un punto in cui tutto questo finirà. Se fissassimo una data sarebbe un peso troppo grande da sopportare. Probabilmente qualche decisione sarà presa alla fine di questo tour che spero comunque vada avanti per parecchi mesi, anche più di un anno. Sappiamo che la fine non è lontana, forse nel giro di due o tre anni. Non mi entusiasma questa idea, dopo 50 anni di carriera tutto questo è come una droga, non ne faresti mai a meno. Ma è nel corso naturale delle cose.

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