Ecco alcuni dei lavori più significativi usciti, tra album di grande successo, gemme di genere e qualche gioiello nascosto
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Si chiude il 2024, un anno che ha visto in campo musicale moltissime uscite di peso. Quelli che seguono sono dieci tra gli album più significativi pubblicati. Non necessariamente quelli di maggior successo o quelli degli artisti più popolari, ma una selezione di lavori che meritano di essere presi in considerazione per svariate ragioni.
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Da qualche anno punto di riferimento della comunità indie rock, che ha visto in loro i nuovi profeti di un post punk urticante, volutamente lo-fi e decisamente poco pettinato, gli irlandesi guidati da Grian Chatten hanno pensato bene di rovesciare il tavolo ridefinendo le coordinate della propria musica. In questi casi c'è chi grida al tradimento mentre qualcuno nell'angolo biascica a bassa voce "venduti". Invece non c'è che da rallegrarsi per la crescita complessiva di un gruppo che è uscito dal proprio guscio per guardare al mondo in maniera più ampia. Se tematicamente i testi sono meno incentrati sul legame con la propria terra d'origine, arrivando a farsi influenzare da serie tv, capolavori distopici manga e persino da Paolo Sorrentino e la sua "Grande bellezza", da un punto di vista sonoro entrano in campo sprazzi di Depeche Mode, rasoiate grunge ibridate con lo shoegaze, . Peccato solo per quella copertina che, mentre "Romance" se la gioca per il titolo di migliore album dell'anno, vince a mani basse quello per la più brutta cover.
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Una delle vere sorprese dell'anno. Il sestetto tutto femminile britannico è arrivato a questo album di debutto dopo una gavetta che lo ha visto tra le altre cose aprire per i Rolling Stones ad Hyde Park. E il debutto delle Last Dinner Party è una sorta di lampo di luce nel panorama pop attuale. Fregandosene di mode e algoritmi Abigail Morris e compagne hanno messo insieme un immaginifico mondo barocco dove trovano spazio Kate Bush e David Bowie, i Roxy Music e gli Abba anche il timbro della Morris fa correre la mente ogni tanto a Florence and the Machine. Ma se dovessimo indicare un'influenza su tutte questa sarebbe quella degli Sparks, per la grande teatralità e per il modo in cui si fanno beffe delle regole della forma canzone, lasciandosi trasportare esclusivamente da inventiva e voglia di colpire l'ascoltatore. Cosa che fanno benissimo con melodie efficacissime, sia quando devono alzare il ritmo, come nei singoli "Sinner" e "Nothing Matters", sia quando devono abbassarlo, come nella struggente ballad "On Your Side".
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È stata la brat summer. Brat significa monella, ragazzaccia e con la sua sfrontatezza e la sua spregiudicatezza la cantautrice inglese ha conquistato critica e pubblico facendo l'en plein. Con più di dieci anni di carriera alle spalle e qualche successo che faceva di lei più che altro un'artista di culto, Charli ha rotto le barriere del recinto conquistando platee per lei inedite. E lo ha fatto a suon di dance, elettropop ed electroclash, con beat pulsanti e groove trascinanti. Ma soprattutto con testi anche ruvidi che vanno a costituire una sorta di memoir o diario personale, dove trovano spazio i suoi pensieri su amicizie e rapporti ma senza sdilinquimenti o romanticherie, anzi mettendo in evidenza rivalità e invidie. Nel complesso una presa di distanza dal mainstream che, paradossalmente, le ha dato il maggior successo della carriera. A tratti audace e sperimentale, a tratti più energicamente pop, "Brat" ha talmente spalancato le porte della percezione di Charli che nel giro di pochi mesi l'artista lo ha riletto completamente ("Brat and It's Completely Different But Still Brat"), rifacendo tutti i brani in duetto con altri artisti e stravolgendone testi e arrangiamenti.
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Se siete ancora alla casella di partenza del "ma io di Taylor Swift non ricordo nemmeno una canzone", potreste muovere da qui. L'ultimo lavoro della cantautrice che macina record (e milioni di dollari) non è il suo capolavoro ma potrebbe per esempio riuscire là dove hanno mancato i precedenti "Midnights" ed "Evermore", ovvero portarsi a casa il Grammy per la miglior canzone, ovvero "Fortnight", il singolo portante cantato in coppia con Post Malone. Anche in questo lavoro la Swift affronta temi a lei cari come la rottura di relazioni amorose con tutto il carico di sofferenza che questa comporta, e per farlo veste i brani con arrangiamenti synth pop con un occhio agli anni 80. Freddo, a tratti cupo, rappresenta probabilmente il punto di arrivo di un percorso segnato dalla collaborazione con Jack Antonoff a Aaron Dessner dei National. Per avere un quadro più completo meglio ascoltare l'edizione "Anthology", dove tra i 15 brani "bonus" (che si spostano su territori più indie-folk) ce ne sono alcuni di grande qualità che avrebbero decisamente meritato di entrare nella versione standard.
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La prova più difficile. Superata la fase della bambina prodigio e attraversata non senza qualche perplessità e sbandamento quella del secondo album, per Billie Eilish era il momento di confermarsi anche nei panni di artista matura (pur con la sua giovane età) o di perdersi sbiadendo nella figura di un fenomeno passeggero. E la popstar losangelina ha dimostrato di avere tutte le carte in regola per dimostrare che quelli che dicono che nel pop era tutto meglio tempo fa forse dovrebbero ascoltare con un po' di apertura in più. "Hit Me Hard and Soft" è stato presentato dalla Eilish e suo fratello Finneas come "un ritorno all'epoca dell'album di debutto". In realtà dal punto di vista sonoro le soluzioni sono molto diverse e, per certi versi, meno sorprendenti di quel disco. Però è evidente una scrittura più sicura e decisa rispetto a "Happier Than Ever". Arrangiamenti minimali si affiancano a stratificazioni complesse mentre i testi raccontano la crescita di una ragazza diventata popstar a sedici anni, vedendo la propria vita stravolta.
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Ha passato buona parte dell'anno a tirarsi sberloni a distanza con Drake, a suon di dissing feroci. Dopodiché Kendrick Lamar ha pensato che il modo migliore per dimostrare di essere il numero uno nel panorama hip hop attuale fosse quello di pubblicare un album a sorpresa di livello superiore. "Mission accomplished" direbbe qualcuno. Uscito senza nessun tipo di preavviso, "GNX" conferma tutto quanto di buono già si pensava sul rapper-premio Pulitzer, con un plus: renderlo ancora più accessibile al grande pubblico. Perché i pur maestosi "DAMN" e "Mr. Morale & the Big Steppers" erano album densi e alti anche a livello di ricerca sonora, con il loro essere rivolti a una sfera principalmente intima. Con "GNX" tutto si stempera senza perdere un briciolo di qualità nella scrittura. Grazie anche alla mano di Jack Antonoff e Sounwave in produzione, rilegge l'hip hop della West Coast in chiave vivace, recuperando la forza del G-Funk e non disdegnando tasselli synth pop, per brani che risultano spesso danzabili e di presa immediata. Kendrick è il presente e il futuro del rap e lo ha confermato per l'ennesima volta.
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Era stato presentato come l'album country di Beyoncé. Non solo un'incursione in un genere in teoria molto lontano dall'anima del cantante ma piuttosto un'ambiziosa operazione di rilettura delle origini del country, rivendicando le radici afroamericane di quella che da sempre viene considerata la musica per eccellenza dell'America bianca e profonda. Di puramente country in "Cowboy Carter" c'è soprattutto la cornice (l'idea di presentare l'album come una fittizia stazione radio del Texas che vede come dj mostri sacri del country come Dolly Parton, Willie Nelson e Linda Martell) e alcuni brani, "Texas Hold'Em", "16 Carriages" e "Jolene" tra questi. Il minimo sindacale diluito in un album black dove in realtà lo sguardo è molto più ampio, inglobando anche folk, rock, soul e persino fado. Tra duetti con Miley Cyrus, Post Malone e la Martell, cover dei Beatles, contributi di Nile Rodgers, Stevie Wonder e Jon Baptiste (a cui aggiungere la penna di Pharrell Williams e Ryan Tedder) ne esce comunque un album di grande spessore. E pazienza se la grande operazione culturale sembra comunque solo abbozzata. C'è tempo, eventualmente per completarla.
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Impossibile non inserire nell'elenco dei dischi che hanno segnato quest'anno il ritorno dei Cure. Non solo perché i fan della band di Robert Smith attendevano da sedici anni questo album più volte vagheggiato e poi finito nel nulla, ma soprattutto perché il risultato è tale da soddisfare la lunga attesa. A mente fredda si può tranquillamente dire che "Songs From the Lost World" non è il capolavoro a cui hanno gridato da più parti al momento dell'uscita, ma resta comunque un album intenso e profondo, che può essere considerato tranquillamente il miglior lavoro del gruppo nel nuovo millennio. Messi da parte i paragoni con "Disintegration", si ricollega idealmente al sottovalutato "Bloodflowers" del 2000. Peccato solo per un suono ultracompresso e saturo, che non permette alle canzoni di respirare e rende a tratti l'ascolto difficoltoso. Che se ne sia reso conto anche Robert Smith? Meno di un mese dopo ha pubblicato l'intero album nella versione live registrata al Troxy di Londra, versione live che, per inciso, rende maggiormente giustizia ai brani.
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Cantautrice poliedrica e vulcanica, capace di passare dalla scrittura di un gioiello pop come "Cruel Summer" di Taylor Swift al rock psichedelico più duro, Annie Clarke con "All Born Screaming" vive una sorta di rinascita che la vede stare in perfetto equilibrio tra immediatezza e ricercatezza. Un album inventivo, pieno di idee e a tratti scatenato. Art-pop allo stato puro dove la Clarke suona tutto il suonabile (con alcune ospitate di Dave Grohl e Cate Le Bon) per tracciare uno scenario dove la tenebra comanda squarciata da fiamme non innocue, come quelle che avvolgono le braccia della cantautrice sulla copertina dell'album.
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La notizia che arriva dall'album del duo di Los Angeles è che il synth pop non è un rimasuglio stantio degli anni 80 ma è vivo e lotta insieme a noi. Per Mica Tenenbaum e Matthew Lewin la soluzione è ibridarlo con qualche percussione indie, una spruzzata di influenze prog e psichedeliche e usarlo per vestire una sorta di concept distopico-fantascientifico il cui protagonista è un personaggio di fantasia che subisce un cambio di percezione grazie all'inserimento di un disco dalla fronte. Ciò che ne esce è un pastiche eccessivo, colorato, avanguardistico ma di grande efficacia. E non parliamo di un oscuro gruppo riservato a pochi eletti: perché mentre nel nostro Paese la musica dei Magdalena Bay è ad appannaggio di appassionati che non si accontentano di ciò che viene proposto da media mainstream e algoritmi, negli Stati Uniti vanno a suonare ospiti nei talk di maggior successo. Meditate gente...